Lavoro non retribuito e situazioni off limits

Da Scritturesocial

Nel mio primo blog, Sotto i fiori di lillà, ho spesso affrontato i temi del lavoro non retribuito e delle situazioni off limits, che i giovani dovevano affrontare nel biennio 2011-2013. Oggi riprendo l'argomento perché ho ascoltato molte testimonianze di persone, che hanno accettato - consapevolmente - di rinunciare a tanto (alcune anche a un contratto a tempo indeterminato) per la speranza di lavorare nel mondo della "libertà", soggiogate da idilliache e portentose proposte sorrette da entusiasmo e sagace manipolazione.

Si è trattato, nella realtà, di richieste di lavoro non retribuito, senza contratto e senza tutele di nessun genere, offrendo manodopera di valore, continuativa, assumendosi gli oneri del carburante, il rischio di infortuni, malattia e tutto ciò che comporta il vivere senza una entrata sottostando a richieste onerose. L'abbaglio del riuscire a " ritagliarsi uno spazio, con il tempo" in luoghi, ambiti e attività già saturi e inaccessibili, la cui realtà " contraffatta " era visibile ad occhio nudo per tutte le altre persone vicine ai malcapitati, è stato più forte della razionalità.

Giudicare queste persone in maniera negativa è fin troppo semplice. I commenti dispregiativi potrebbero proliferare a dismisura.

Desidero riflettere con voi sul che cosa spinge una persona con grande bisogno di sopravvivere economicamente e psicologicamente ad accettare (senza denunciare) mobbing, richieste sconsiderate, situazioni folli pur di non venir meno all'idea di divinità, con la quale si è investita la "voce guida" per la quale si ha scelto di abdicare completamente al proprio mondo e punti di riferimento. Il bisogno e le voragini lasciate crescere dall'assenza di figure di riferimento stabili sono elementi importanti così come la ricerca di qualcuno che riconosca il proprio valore dopo "aver dato così tanto" è un altro stimolo fin troppo forte per le imprese impossibili, nelle quali alcune persone ci si gettano a capofitto sperando di vedere riconosciuta la loro anima.

Come tutelarsi e proteggersi nel momento in cui l'incantesimo svanisce, gli occhi si aprono e ci si rende conto che si è dato tanto, troppo, che le scelte fatte sono state illogiche, irresponsabili e, talvolta, infantili, sorrette solo da un bisogno abnorme di una guida forte?

Come tutelarsi davanti all'ira sovrumana, che i moti di ribellione o il semplice ipotizzare a un "vago diritto" come l'avere una entrata per poter pagare l'affitto, scateneranno seduta stante, senza freni, senza rispetto, senza pietà e, cosa ben peggiore, senza che "l'arrabbiato" sia in grado di capire la legittimità della richiesta e di apprezzare e capire il tanto ricevuto gratuitamente, i sentimenti di dedizione e stima totale dei quali era stato investito?

Davanti a questo quadro, mi sono trovata spesso a pensare a Peter Pan, all' idea fanciullesca di fiducia totale regalata a quintali e di pretese incondizionate, come quelle di un bambino capriccioso, che punta i piedi, urla, tira pugni e non si placa fino a quando tutto il mondo intorno a lui non ricomincia a fare esattamente ciò che lui pretende, nei modi da lui definiti e per tutto il tempo che riterrà opportuno..... fino alla prossima "fiamma d'idee".

Si sta parlando di persone deboli: lavoratori con scarsa fiducia nel loro valore professionale, capi non leader. Un leader non accetta di umiliare selvaggiamente i suoi collaboratori. Sa che sono il suo bene più profondo, sa che insieme a loro può realizzare idee di business con maggiore successo e rilevanza. Un leader ha rispetto per sé stesso e per gli altri e non accetta carità lavorativa ma, semmai, fa riflettere la persona sulla necessità di stipulare accordi in grado di preservare la dignità dell'essere umano. Un leader non ha bisogno della violenza psicologica per piegare il volere altrui: verrà seguito perché sarà il primo a dare l'esempio, porterà motivazioni razionali, logiche, sorrette da spessore contenutistico e, soprattutto, accetterà anche l'opinione diversa cercando di lavorare insieme.

Vi è, poi, un secondo problema rilevante.

Il lavoro non retribuito non è lavoro, è volontariato erogato in ambito lavorativo non associazionistico o di bisogno reale; è un favore fatto per gentilezza e generosità MA non può considerarsi lavoro in senso stretto. Il lavoro deve essere retribuito. La beneficenza è un'altra cosa e può essere portata avanti anche per tutta la vita senza però mettere in pericolo le basi della propria sopravvivenza e di chi dipende da noi in ambito familiare.

Dare tanto, troppo, in ambito lavorativo senza chiedere in cambio il giusto denaro per la propria manodopera o costi sostenuti di tasca propria crea tutte quell'insieme di situazioni spiacevoli e de responsabilizzanti in ambo i sensi: chi offre può sentirsi logorato, svalutato, in affanno e non obbligato a continuare il "servizio", lasciando un vuoto, dall'oggi al domani, senza dovere spiegazioni di alcun genere. Chi riceve può non dare alcun valore a ciò che sta ottenendo gratis, senza meritare, senza muovere un dito, senza investire nulla, senza assumersi l'onere di avere quel servizio, che pure gli sta portando benefici ed entrate dirette e che incide positivamente sulla sua reputazione e pubblicità.

Come ci si può tutelare quando "il dado è tratto" e si comprende di aver agito in maniera sconsiderata, anche se in buona fede e con le migliori intenzioni? Lo scontro diretto lascerà a pezzi "il volontario" debole, travolto da un turbinio di accuse, insulti e negatività di ogni genere, che dovranno essere smaltite a livello emotivo e che accompagneranno i pensieri, le azioni e le relazioni del "lavoratore" per molto, molto tempo, andando ad inficiare il suo (già traballante) senso di sé. Il mio consiglio è di fermarsi prima. Prima di dare troppo, prima di investire troppa emotività, prima di mettere sul piedistallo di Dio una persona, prima di rinunciare alla propria razionalità in nome di una nuvola vaga di speranze ipotetiche.

E' molto probabile che "l'arrabbiato" andrà a raccontare verità distorte. Il racconto sarà sempre lesivo nei confronti dell'altra persona e "l'arrabbiato" cercherà di raccontare la sua versione dei fatti passando come "vittima" di un "ingrato a cui ha dato tanto". Non ammetterà mai di aver chiesto troppo. Non racconterà mai le vessazioni a cui ha sottoposto l'altra persona. Non dirà mai il tanto che ha negato. Potrà arrivare a mettere in circolo voci false sul conto della persona e sulle sue abilità lavorative e, se è influente, potrà anche limitare i futuri lavori e sviluppi del "lasciante". Quando le falsità verranno raccontate all'"ex volontario", costui dovrà trattenersi dal prendere in mano il telefono, scrivere una e-mail, andare di persona ad arrabbiarsi con l'ex datore di lavoro perché ciò che ne uscirebbe sarebbe solo un continuare a tenere in vita il conflitto, senza dare la possibilità al "fuoco" di tramutarsi in cenere e di spegnersi, diventando concime utile per il futuro.

Parlare è importante ma, non è sempre necessario.

Non è necessario quando si sà in anticipo che lo scontro porterà solo un groviglio di accuse identiche. Quando il parlare è solo uno sfogo d'orgoglio senza la volontà di risolvere o modificare in positivo una situazione. In questi casi è meglio tacere, fare altro, riprendere in mano la propria vita, arrabbiarsi con sé stessi e cercare di capire che cosa ci ha spinti al limite, come cambiare, cosa apprendere dall'esperienza.

Parlare è importante, invece, quando dall'altra parte c'è una persona disposta ad ascoltare.

Nelle situazioni sopra descritte questo non accade.

Di solito, chi si sente Dio non ammette di essere messo in discussione e, se lo si cerca di tirare giù dal piedistallo, la sua ira non conoscerà limiti. Con questo tipo di persone, l'unica cosa sensata da fare è andare via. Creare una zona cuscinetto per superare l'esperienza, raccogliere i pezzi e ricominciare a seguire la propria strada con maggiore saggezza e senso di responsabilità.

Sperando che l'esperienza insegni e protegga dal prossimo "aspirante dio" sul proprio cammino.