Lavoro per produrre o lavoro a ore

Creato il 29 novembre 2015 da Propostalavoro @propostalavoro

"Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l'ora-lavoro" è quanto ha affermato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti in occasione di un convegno sul Jobs Act. Ha poi aggiunto che il lavoro è "un po' meno cessione di energia meccanica ad ore ma sempre più risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà" insomma  l'orario, a fronte dei cambiamenti tecnologici, "è un attrezzo vecchio".

Non sono mancate le polemiche tant’è che in un’intervista al sole24ore il ministro Poletti si è sentito in dovere di ribadire che "Se cambia il modo di lavorare può cambiare anche il modo di definire la retribuzione: mi sembra una cosa ovvia, non credo di aver detto cose da extraterrestre".

Senza travisare il significato delle parole del Ministro e, d’altro canto, senza scadere in sterili polemiche attribuendo significati mai realmente esplicitati, proviamo a fare una riflessione. Per questo ci serviamo di quanto scrive Stefano Feltri in un articolo del fattoquotidiano.it dal titolo “Poletti un po’ ha ragione: a cosa (non) serve l’orario di lavoro”. Seguendo la riflessione di Feltri, che cita la teoria dei contratti studiata dagli economisti, esistono due categorie di lavori: quelli di cui si può misurare lo sforzo e quelli dove non è possibile e conta solo il risultato. E passa poi a fare esempi concreti di lavori in cui gli orari contano poco o nulla: “Penso a noi giornalisti, ma vale anche per tantissimi che lavorano nel settore dei servizi: quando aprite una mail che vi arriva sulla posta aziendale o rispondente al cellulare state lavorando o no? Qualche sera fa, di domenica, ero a mangiare una pizza con amici: tra questi una ragazza che si occupa di social media. Ha passato tutta la serata su Twitter, perché era un momento importante per la trasmissione tv di cui deve curare l’account. Quale contratto di lavoro potrebbe stabilire un orario che contempli anche la domenica sera?”. Cita poi i lavori di frontiera, incompatibili con un orario rigido: dai driver di Uber ai lavoratori che vendono le loro prestazioni all’asta.

Tuttavia, prosegue l’articolo, “restano moltissimi lavori dove non si può misurare soltanto il risultato, perché il lavoratore è soltanto un anello di una catena del valore lunga e complessa e l’unico modo equo di misurare la prestazione è il tempo ad essa dedicato. Si tratta di solito dei lavori a minore valore aggiunto, quelli che comportano basse qualifiche e bassi stipendi. Sono, insomma, i lavoratori più deboli che hanno bisogno di essere pagati in base al tempo e non in base ai risultati. Vale per gli impiegati pubblici, per gli operatori ecologici, per tutti i lavori su turni, per quelli usuranti, dove ogni minuto aggiuntivo pesa come un’ora”.

Insomma seguendo il ragionamento di Feltri, i lavori nuovi, all’avanguardia, o come li definisce nell’articolo, “di frontiera”, sarebbero più adatti ad essere considerati da parametri differenti che il tradizionale orario di lavoro. Di contro i lavori tradizionali, caratterizzati da un livello basso di qualifiche, sarebbe bene lasciarli così come sono con criteri misurati tradizionalmente, quali appunto, l’orario di lavoro. Tra questi Feltri cita l’impiegato pubblico. Ma siamo davvero sicuri che l’impiegato pubblico debba essere misurato esclusivamente da quante ore passa nel suo ufficio? Ma di quale impiegato pubblico parliamo esattamente? Perché non in tutti i casi sembrerebbe così, nemmeno per le mansioni di basso livello. Ad esempio possiamo contare quanti documenti ha protocollato in un giorno un impiegato addetto al protocollo, quante domande di disoccupazione ha lavorato un impiegato dell’inps, quante pratiche di pagamento ha curato un impiegato addetto al bilancio, quante richieste ha risolto un impiegato di front office… e chi l’ha detto che il lavoro di un operatore ecologico debba essere misurato necessariamente a ore? E la lista potrebbe continuare. Dunque, il ragionamento di Feltri non regge sugli esempi da lui fatti. Anzi, se si applicassero criteri di produttività (al posto del criterio “ti pago per stare qui 7 ore e 45 minuti al giorno) anche ai lavoratori appena descritti, forse non leggeremmo più di casi come i “timbratori in mutande” del Comune di Sanremo.

Feltri conclude che “L’obiettivo della polemica dovrebbe essere la difesa del lavoratore, non dell’orario”. Ma noi aggiungiamo, l’obiettivo dovrebbe essere la tutela del lavoratore che lavora e che sa fare bene il proprio lavoro. La verità è che non tutti i lavoratori meritano di essere difesi. Quello su cui si dovrebbe ragionare, piuttosto, sono forme di tutela basilari valide per tutti i lavoratori (liberi professionisti e professionisti del cartellino) e criteri meritocratici basati sul singolo lavoratore e non su categorie di lavoratori. Perché continuando a ragionare per categorie si rischia di trattare allo stesso modo uno stakanovista e il famoso timbratore in mutande del comune di Sanremo.

Alessia Gervasi