Lavoro precario? No, grazie!

Creato il 29 giugno 2012 da Eloisa @EloisaMassola
Ormai ho capito come funziona: la gente si sente autorizzata a dirti in faccia qualsiasi cosa, senza pudore né ritegno. Se poi ci si "incontra" su un social network, a quel punto tutto diventa ancora più facile, protetti come siamo dai monitor e ben lontani dai nostri interlocutori. E allora... via alla fiera della maleducazione e della superficialità! Consigli non richiesti, parolacce, frasi scritte con un detestabile tono di superiorità, giudizi espressi sul conto di persone che, magari, non abbiamo mai neppure né visto né conosciuto.
Di recente, mi è capitato di discutere (mea culpa, mea maxima culpa...) con una tizia su Facebook, che era tra i contatti di uno dei miei amici. Il luogo della discussione è stata la bacheca del nostro comune amico e l'argomento era il lavoro precario - piaga sociale del nuovo millennio.
Io sostenevo che questa nuova tipologia di contratti è deleteria per il sano sviluppo della società, mentre la signora asseriva (con grande candore) che il precariato le forniva l'opportunità di crescere giorno dopo giorno, di fare nuove esperienze (!!) e che solo chi sceglieva di non fermarsi mai (leggi: di non contestare il "sistema") aveva la possibilità di uscire vittorioso.
A parte il fatto che a me, di apparire "vincente" in questa società, importa poco o nulla... ciò che più mi ha colpito in questo dialogo a distanza non è stato tanto il tono condiscendente della mia interlocutrice (che mi ha lasciato intendere di giudicarmi una persona debole e poco combattiva e, dall'alto della sua brillante carriera di precaria, ha pensato di concludere lo scambio di commenti con un magnanimo "In bocca al lupo"), quanto la buonafede delle sue posizioni: lei era davvero convinta che il precariato fosse (sia!) una palestra per valorosi e che l'unica strada per raggiungere il successo fosse quella di lasciarsi sfruttare biecamente, adattandosi ad essere tutto e il contrario di tutto.
Come ho già avuto modo di scrivere, io non la penso così; e, pochi giorni dopo la conversazione che ho riferito, mi sono imbattuta, tra le pagine della rivista "Terra Nuova" in una bella e illuminante intervista a Philippe Godard, autore del libro Contro il lavoro (Elèuthera, 2011). 
L'esaltazione del lavoro presenta, per chi detiene il potere, l'enorme vantaggio ideologico di riunire sotto lo stesso vessillo sfruttatori e sfruttati. Si finisce così per considerare il lavoro come un valore; ma se così è, allora significa che questa società considera anche il processo di produzione-consumo un valore fondamentale, prospettiva di per sé agghiacciante. Peraltro è un giochino che permette di schiacciare le libertà, che si riducono solo a quelle necessarie al valore lavoro: poter produrre e consumare liberamente. (P. Godard intervistato da Claudia Benatti per "Terra Nuova", luglio/agosto 2012)
Godard, come si evince, è contro il lavoro in sé e per sé e le scelte che ha compiuto nel corso della sua vita sono del tutto coerenti con questa visione.
Per quel che mi riguarda, credo che, se il lavoro in genere non è altro che una maglia all'interno della catena del consumismo (che ci rende tutti meno liberi), a maggior ragione risulta deleterio il lavoro "flessibile", che priva il lavoratore dei diritti più elementari e che gli toglie la speranza di potersi dedicare a un'attività gradita o di poter costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli.
E' la nostra società contemporanea ad aver creato carestie e povertà su larga scala. Ed è la nostra società ad avere talmente interiorizzato il lavoro da non poterlo più mettere in discussione, se non rimettendo in discussione il senso stesso della vita. Ebbene, è ora di farlo.
Il lavoro fisso non esiste più e dunque non ha più senso pensare a una ri/e-voluzione basata sulle lotte sindacali e sull'affermazione di determinati diritti. La nuova ri/e-voluzione dovrà passare necessariamente attraverso la contestazione della società dei consumi, per poi proseguire verso un percorso di decrescita.
Dobbiamo rifiutare di impegnarci ancora sulla via del progresso. Possiamo inventarci un'esistenza diversa, dalla quale bandire il lavoro. Il non-agire è tutto il contrario del non-intervento. Non è un ritirarsi dal mondo, bensì una critica verso qualsiasi azione contro l'ambiente. Non è un modo di fare la rivoluzione, ma di viverla.
Insomma, come ho scritto alla mia garbata interlocutrice su Facebook, se non condividi questo "sistema", non ha senso affannarsi e sgomitare nel tentativo di farne parte. Ciò di cui abbiamo bisogno non è l'ennesima variazione sul tema, ma un cambiamento radicale e bellissimo.

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