“Le affinità alchemiche” di Gaia Coltorti

Da Vivianap @vpicchiarelli

Giovanni ha diciotto anni, trascorsi quasi tutti a Verona, dove è nato. Una vita tranquilla, qualche amico e, ogni giorno, i lunghi allenamenti in piscina per prepararsi alle gare. Anche a casa regna la quiete: Giovanni vive solo con suo padre, notaio, in quel genere di grande appartamento abitato da due uomini che ogni donna può immaginarsi. Selvaggia ha diciotto anni, molte amiche e diversi spasimanti, vive sul mare e assapora l’estate appena iniziata quando sua madre le sconvolge la vita: si trasferiranno per ragioni di lavoro. Selvaggia cambierà scuola, dovrà ricominciare tutto da capo e lo dovrà fare a Verona, la città dove è nata e da cui proprio la mamma, tanti anni prima, l’aveva portata via, separandola dal padre e dal fratello gemello. Quando Selvaggia varca per la prima volta la soglia della nuova casa, Giovanni è rintanato in camera sua. Gli basta la voce di lei per capire che nulla sarà più come prima. Giovanni scopre quella voce come un regalo, ma al tempo stesso la riconosce, è un suono che vive da sempre dentro di lui: Selvaggia, la sorella perduta, è tornata nella sua vita, per sempre. Lei a Verona non conosce nessuno: solo Johnny – come lo ha subito ribattezzato – può farle da guida e tenerle compagnia nei tre lunghi mesi che devono trascorrere prima della ripresa scolastica. Selvaggia è bellissima, piena di fascino ma anche capricciosa fino allo sfinimento, croce e delizia per il fratello ritrovato. Presto tra i due si sprigiona un’elettricità, un magnetismo, un’affinità…

A prima vista il tema, scottante e drammatico, dell’amore incestuoso tra due fratelli gemelli poteva rappresentare un’idea interessante dal punto di vista narrativo per vivacizzare il panorama letterario odierno ancora carico dell’abbuffata erotica che ha invaso gli scaffali delle librerie negli ultimi mesi.

In realtà, a mio modesto avviso, il libro è pessimo.

La storia non regge: due gemelli separati poco dopo la nascita perché la madre decide di andar via di casa portando con sé la bambina, mentre il padre insiste per avere il maschio… quasi diciotto anni di lontanza e poi, guarda un pò, la famiglia prova a ricostituirsi (sorvoliamo sui tentativi penosi messi in atto dai due “parents”, come vengono identificati nel libro).

Narrazione ingarbugliata, con una sintassi che strizza l’occhio al povero Shakespeare senza disdegnare qualche “gulp”, “stra-gulp” , “Uh”, “Gasp”, disseminati qua e là, così, tanto per ricordarci che: 1) si parla di adolescenti; 2) la “scrittrice” è un’adolescente.

Giovanni e Selvaggia, già definiti dal marketing becero di settore i  “Romeo e Giulietta del XXI secolo”, si muovono sullo sfondo delle vie di Verona scambiandosi languide e appassionate dichiarazioni d’amore palesemente anacronistiche e del tutto fuori luogo in bocca a dei tardi adolescenti di oggi. Assolutamente non credibile. Così come il finale.

L’unica nota realistica del romanzo (?) risiede nel profondo divario e nella drammatica incomunicabilità tra adulti e adolescenti.

Non c’era bisogno, però, di rifare il verso al Bardo per affrontare ancora questo tema e, soprattutto, non era fondamentale solleticare palati pruriginosi con la boiata dell’amore incestuoso, il quale, peraltro, sarebbe stato molto più credibile e angosciante se i due si fossero amati senza conoscere il loro grado di parentela.


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