Pubblicato finalmente in Italia il primo lavoro del grande fotografo brasilianoQuella
singolare richiesta
di Gaetano ValliniAppena quarantanove fotografie — cinquanta con la copertina — per raccontare l’America latina. Di più non si poteva: problemi di budget. Ma quel limite fece sì che le immagini scelte per il libro fossero davvero le più significative, quelle con maggiore forza espressiva, capaci di raccontare le misere condizioni di vita di popolazioni abbandonate in un isolamento non solo geografico, ma anche la dignità con cui affrontavano le difficoltà quotidiane. Così quando nel 1986 uscì in Francia, grazie all’editore Contrejour, Autres Amériques s’impose subito come un’opera importante, punto di riferimento per la fotografia di documentazione, portando all’attenzione della critica il nome di Sebastião Salgado, fotografo di origini brasiliane all’epoca poco conosciuto, così come quel pezzo di continente dimenticato che aveva voluto mostrare al mondo. Oggi, grazie a Contrasto, quel lavoro viene finalmente pubblicato anche in Italia. E sfogliando Altre Americhe (Roma, 2015, pagine 127, euro 35) si coglie la freschezza di quelle fotografie, la loro attualità. Perché per alcune di quelle popolazioni isolate, visitate oltre trent’anni fa da Salgado, le cose non sono cambiate poi molto. Altre Americhe — riproposto con i testi originali di Claude Nori, che racconta la genesi del libro di cui curò la prima edizione, di Salgado, di Gonzalo Torrente Ballester, e l’introduzione di Alan Riding all’edizione statunitense — è il frutto dei viaggi in Ecuador, Bolivia, Perú, Guatemala, Brasile e Messico durati sette anni, o, come dirà l’autore, «sette secoli, perché tornavo indietro nel tempo. Alla velocità lenta e densa che caratterizza il passaggio di tutte le ere in quella regione del mondo, assistevo al susseguirsi di un flusso di culture differenti e al tempo stesso simili nelle loro credenze, dolori e scherzi del destino». Quello che si dischiude agli occhi del lettore è un mondo di miseria estrema, di sofferenza, di quotidiana lotta per la sopravvivenza in territori spesso ostili. Una realtà che mostra la semplicità della vita contadina unita a un misticismo profondo e nostalgico legato alla natura, alle distese delle Ande e della Sierra Madre, delle foreste e dei deserti; una religiosità che mescola magia e superstizione, in cui il cristianesimo è stato assorbito e adattato senza tuttavia essere snaturato. Un mondo in cui la rassegnazione non precipita mai nella disperazione e il fatalismo diventa accettazione di un destino che si porta via grandi e piccini, che però restano vivi nella memoria di tutti. Perché qui si vive come comunità.E proprio la realtà della morte — «sorella inenarrabile del quotidiano» annota Salgado — è uno dei motivi di questo lavoro, al pari della religiosità. Foto che mostrano minuscoli cimiteri con semplici tombe segnate da piccole croci di legno e di ferro, adorne di fiori appassiti e lumi dalla luce fioca. E raccontano di riti funebri durante i quali i corpi dei defunti sono tolti da bare noleggiate, da riutilizzare, perché seppelliti senza cassa saranno liberi di trovare la strada del cielo, e di bambini sepolti con gli occhi aperti, perché altrimenti vagherebbero accecati nell’aldilà, impossibilitati a trovare la casa del Signore. Altre immagini mostrano piedi polverosi che sembrano pietre, tanto hanno camminato scalzi lungo sentieri impervi; piccole piazze di paese trasformate all’occorrenza in confessionali o in barberie a cielo aperto; una festa di matrimonio nella quale si stenta a cogliere la minima traccia di felicità sui volti degli sposi e degli invitati; vagoni trainati da logore locomotive, sui quali si aggrappano minatori con i volti scavati dalla fatica e anneriti dal carbone; avvoltoi che planano su una discarica urbana per dividere con alcuni uomini gli scarti di una società escludente.Nelle Altre Americhe di Salgado non ci sono accenni al folklore e all’esotismo che campeggiano nei depliant turistici che pubblicizzano i viaggi in queste terre. Ma non c’è neppure la drammatizzazione della povertà estrema. Quello mostrato si presenta come un luogo senza tempo, immutabile, privo di frontiere, quasi geloso del suo isolamento. Le persone ritratte non fanno sentire la loro voce, né si aspettano che qualcuno l’ascolti. Così non appare strano che a San Lucas de Los Saraguros, nell’altopiano boliviano, il fotografo riceva da uno degli abitanti del posto una singolare richiesta. Supo, che la domenica approfitta delle letture bibliche che gli fa una suora, in uno dei suoi deliri mistici — così li definisce l’autore — gli chiede di raccontare alla gente del cielo il suo comportamento sulla terra. «Era assolutamente convinto che io fossi un emissario degli dei mandato laggiù per mostrare e raccontare».Il libro in qualche modo è stato una risposta a quella richiesta. «Le fotografie di Salgado — ha scritto Alan Riding — catturano di volta in volta la luce e l’oscurità del cielo e dell’esistenza, la tenerezza e il sentimento che coesistono con la durezza e la crudeltà. Salgado è andato a cercare un angolo dimenticato delle Americhe, erigendolo a prisma attraverso il quale può essere osservato il continente nel suo complesso. Una filosofia di vita catturata in uno sguardo; un’intera modalità di esistenza congelata in un istante».E già da questo primo lavoro s’intuisce quello che sarà il tratto caratteristico del fotografo, l’etica che lo guiderà nel mestiere. «Non mi meraviglia — rileva in proposito Claude Nori — che Sebastião sia diventato un grande fotografo e rimasto un militante, un militante pacifico passato dall’altra parte dello specchio per cambiare il corso delle cose, rendere il mondo più bello e restituire dignità a coloro che lo abitano».
(©L'Osservatore Romano – 9 luglio 2015)
DIDASCALIE
1 - Brasil 1981 © Sebastião Salgado/Amazonas Images
2 - México 1980 © Sebastião Salgado/Amazonas Images
3 - Ecuador 1982 © Sebastião Salgado/Amazonas Images
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