Questa è una di quelle storie che non si possono non raccontare. Che trovi quasi per caso, scritte in carattere minuscolo sul booklet di qualche CD usato, comprato anch’esso per caso, ad occhi chiusi. Che presto potrebbero scomparire, non trovando più posto nei supporti unicamente digitali, e che vanno quindi preservate, custodite come l'ultima sottospecie di camaleonte in estinzione. L' avventura di un rocker nella jungla. Testimonianza di un epoca e di uno spirito pioneristico, curioso, un po' incosciente ma sincero. Il nostro protagonista fu a suo modo un romantico, uno degli ultimi. Oppure il primo di quelli cosiddetti new.
Alla fine degli anni '50, Pete Miller è uno dei tanti ragazzi folgorati da Johnny Be Good, Elvis e gli scatenati rocker americani. Nato a Norwich, Norfolk, nel 1942, Pete non perde tempo: jeans, occhialoni alla Buddy Holly e ciuffo da Roy Orbison. Qualche posa scatenata sul palco del college, ed ecco che i suoi Offbeats pubblicano alcuni pezzi nel 1959. Ma Pete è spirito libero, ipercinetico, mal avvezzo alle materialità del mercato. Fantasioso chitarrista ed autentico showman, si accasa coi Jaywalkers, un combo di surf strumentale del Norfolk, per cui sfoggia un vistoso completo giallo e col quale gira per l'Inghilterra sul (relativo) successo di Can Can 62, uno scherzo rock-sinfonico che pare uno scarto dei Ventures. Incidono per Decca e Pye, fanno da spalla ai neonati gruppi della prima grande generazione britannica: Beatles, Kinks, Animals tra gli altri. Mica male. Tra il '62 e il '65 il gruppo pubblica una decina di singoli. Poi Pete decide di mettersi in proprio e fino al ‘68 presterà la sua imprevedibile chitarra ad ogni band del più remoto sottobosco dell'epoca: Boz, The Magic Lanterns, The Knack.
“Alcune di queste basi erano luoghi molto difficili da raggiungere, per esempio, NKP (Nakhon Phanom) era proprio al confine con il Laos. Dovevamo lasciare Bangkok alle sei di sera per suonare lì la notte seguente, era una viaggio di 24 ore e si potevano raggiungere i 50° gradi al sole. Ed è vera e propria giungla là fuori. C'erano serpenti, scimmie, elefanti che bloccavano la strada e, anche se non era il Vietnam, i vietcong erano dappertutto. A volte i colpi dei cecchini saltavano fuori di nulla e colpivano il furgone, così noi dovevamo correre ai ripari e rintanarci nella giungla. Era l'inferno su quattro ruote.”
Ma c'è di peggio dei pachidermi...sopratutto quando il gruppo si avventurava in solitaria alla ricerca di un po' di fumo:
Una notte di luna, dopo un concerto alla Udorn Airbase, ci siamo inoltrati un paio di chilometri fuori città, lungo le rive del fiume Makhon, in un piccolo villaggio in cerca di un po' di droga e ci imbattiamo in questo Vietcong ubriaco che pensava fossimo soldati e tutto agitato ci ringhiava addosso. Il nostro roadie, che parlava un po' vietnamita, continuava a indicare i nostri capelli, urlando “Capelli lunghi, no GI! Capelli lunghi!”. Così alla fine il Viet ci ha lasciati andare. Saremmo diventati cibo per cani se non avessimo avuto i capelli lunghi. E’ stato un po’ pauroso, ma per la metà del tempo non capivamo esattamente cosa stesse succedendo. Pagavamo cinque dollari per due chili di quella che chiamavano “la migliore erba di Buddha!”, così è naturale che i ricordi sono un po’ flebili…per non dire altro.
Charlie don't surf… ma evidentemente gli piace il rock. All’epoca l’industria musicale dell’Asia tropicale era, comprensibilmente, inesistente. Nessuna possibilità di registrare nuovo materiale, nessuna scena locale, pochi club in cui suonare; nessuno da scopiazzare. Ma i soldati americani avevano gusti niente male, rifornimenti abbondanti e materiale di prima mano. Così capitava che Big Boy si facesse prestare gli ultimi 45 giri Made in U.S.A., e magari improvvisasse per ore su In-a-Gadda-da-vida con un vecchio sitar filtrato attraverso un pedale Vox e un Selmer fuzz-box. Roba da allucinazioni istantanee; di cui, manco a dirlo, pare non rimanga alcuna traccia. Le avventure di Big Pete and the News nel lontano oriente durarono circa un anno. Poi, liberi tutti.
La discografia di un personaggio tanto sfuggente è giocoforza una cosa complicata. Valga quindi quella riportata sul sito ufficiale di Big Boy – www.bigboypete.com – consultabile all’indirizzo: http://www.bigboypete.com/discography.html Difficile anche accaparrarsi molti dei CD elencati o, meno che mai, vinili. Senza contare che il materiale è di genere e qualità quanto mai vari. Tra un marasma di compilation, demo, materiale eterogeneo proveniente da oltre tre decenni di incisioni con decine di band diverse, è difficile fare ordine. Menzioni speciali per i due singoli ultra-psych Baby I got News for You e Cold Turkey e per The Perennial Enigma, una bizzarra sciarada di pezzi registrati a San Francisco negli anni ’70. Quest’ultimo assieme alla raccolta Cold Turkey e ai recenti Homage to Catatonia e Summerland è uno dei dischi di più facile acquisto, oggetti che spesso corrispondono alle ottime uscite di marca Gear Fab e Angel Air. Uno spazio speciale bisognerà poi dedicarlo al magum opus di Big Boy, World War IV. . . A Symphonic Poem. Concept pretenzioso, esagerato, assolutamente sballato come era nello stile dell’epoca, su cui il blog dovrà per forza tornare con uno spazio speciale ad esso dedicato.
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