Ogni giorno ha la sua croce, per la Spagna sfiduciata e quasi rassegnata della crisi economica.
Una Spagna che vive sotto il peso di una catastrofe imminente e ventura, sempre rinviata e differita nel tempo. Non è l’austerità che potrebbe far crollare il Paese iberico, non è la pressione fiscale, che anche se sta crescendo è comunque minore di quella italiana, e neanche il tasso di disoccupazione monstre, ormai lanciato verso il 24% della forza lavoro, con il 50% tra i giovani.....
Da buon popolo latino, infatti, gli spagnoli si stanno arrangiando e, anche se hanno dovuto ridimensionare il loro stile di vita, tra sussidi di disoccupazione e lavoro nero non se la passano poi così male. Con che prospettive non è dato sapere, ma almeno un presente di sopravvivenza è garantito. Ecco, dunque, perché un intero Paese rischia di saltare gambe per aria, in una caduta che subito trascinerebbe il resto dei Pasi europei, dentro un effetto domino difficilmente prevedibile: per via delle sue banche. Le famose banche spagnole. Anche se sarebbe meglio dire, per colpa delle cajas spagnole.
Ciò che è successo tra Aprile e Maggio è stato indicativo di ciò che potrebbe accadere di qui alle prossime settimane, se la situazione dovesse scoppiare: Bankia, una dei maggiori istituti di credito del Paese, nata solo un anno fa dalla fusione di Caja Madrid e Bancaja (di Valencia) ha dovuto chiedere aiuto al governo. Pena, un molto probabile fallimento. Il Presidente di quest’istituzione bancaria, l’ex ministro dell’Economia con Aznar, Rodrigo Rato, si è dimesso, anche se in molti giurano che sia stato fatto dimettere. Un’uscita di scena “volontaria”, dunque.
Si è diffuso il panico da subito: Bankia è una delle casse nevralgiche che dà credito a tutto ciò che si muove nella capitale e da sempre, da quando ancora si chiamava Caja Madrid, è stata esposta agli appetiti della razza padrona del Pp, il Partito Popolare, a Madrid forza egemone. La cassa, ad esempio, di quel Real Madrid che si regge su centinaia di milioni di debiti. Ma anche, sempre Caja Madrid, il centro del sempiterno scontro tra l’ala più radicale del Pp, rappresentata dalla Presidente della Comunità di Madrid Esperanza Aguirre, e quella dell’ex Sindaco della capitale, ora Ministro della Giustizia, Alberto Ruiz Gallardón. Uno scontro in piena regola, con il leader del partito e attuale primo ministro Mariano Rajoy alla finestra, come suo solito.
Comunque, morale della favola: il salvataggio di Bankia costerebbe alle casse statali spagnoli circa 23 miliardi di euro. Un’enormità. Questo, dopo che il governo solo qualche giorno prima aveva annunciato che la situazione è grave, e che si è reso necessario procedere, dopo tutti i tagli degli ultimi 2 anni, di una riduzione del budget statale di 10 miliardi di euro nei capitoli di istruzione e sanità.
D’altronde, se cadesse anche solo una delle istituzioni bancarie e delle cajas che in questo momento rischiano, i problemi interessebbero a cascata tutto il continente europeo, ormai interconnesso anche da questo punto di vista. Tuttavia, è singolare che si chiami “nazionalizzazione” un processo che sostanzialmente punta a socializzare le perdite delle singole entità bancarie senza per questo influire in nessun modo sugli utili che queste riprenderanno a produrre. Tutto ciò, mentre si continuano a smantellare pezzi di welfare più o meno improduttivi.
Ma perché le banche spagnole sono in questa situazione? La risposta sta tutta in una parola, nell’ossessione della penisola iberica fino al 2007, anno ufficiale dello scoppio della Grande Crisi: nel “mattone”. Il “mattone” era il simbolo di uno sviluppo che mai sarebbe potuto finire. Le banche spagnole compravano in blocco case e case, quando non interi complessi residenziali. E davano mutui a condizioni sbarazzine. La bolla immobiliare sembrava non avere più limiti alla sua espansione. Tutti compravano, compravano, compravano. E si indebitavano, e tanto. Tutto un indotto (dagli ingegneri, agli architetti, alle industrie della costruzione ecc ecc) si ricopriva d’oro. Ma le bolle sono fatte per scoppiare. E le banche spagnole si sono ritrovate con il cerino in mano: si stima che sul groppone hanno, euro più euro meno, almeno 100 miliardi di esposizione sul mercato immobiliare, tra case che non riescono più a vendere e crediti che non riescono, o non possono più, esigere.
Su questo pesa, o ha pesato, la particolare composizione del sistema creditizio spagnolo. Il quale si divide tra le grandi banche (come Santander o la Bbva) che pur con i problemi dati da una congiuntura sfavorevole continuano bene o male a galleggiare e le cajas, le casse di risparmio. Si annida lì, il bubbone della crisi spagnola. Nate come entità di servizio, i cui utili dovevano essere reinvestiti in opere di utilità sociale, presenti nella maggior parte delle realtà locali, fatto per cui dovevano essere maggiormente prossime al piccolo risparmiatore, hanno finito per diventare preda di cacicchi e sultani locali di partiti e gruppi di interesse. Venendo gestite così non con criteri manageriali ma secondo logiche politiche e clientelari. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. L’ex premier Zapatero tentò di fare una riforma che favoriva le fusioni tra le cajas, ma senza grossi risultati. In pochi mesi ci ha provato già due volte Rajoy, ma la situazione è sempre più grave.
Il governo spagnolo è intenzionato a resistere. È da vedere se questo basterà. Il punto è essenzialmente uno: Rajoy vorrebbe che le banche in difficoltà potessero accedere direttamente al fondo di salvataggio europeo. Il Cancelliere tedesco Merkel vorrebbe invece che qualora la soluzione di salvataggio delle banche dovesse essere europea, i soldi venissero dati al governo spagnolo, che poi li dovrebbe girare ai singoli istituti di credito. La differenza non è da poco: nella seconda ipotesi i fondi dati al governo spagnolo per la ristrutturazione del sistema bancario andrebbero conteggiati nel debito pubblico di Madrid. Aprendo la strada, così, a una Spagna commissariata dalla Triade, sulla falsariga di Grecia, Irlanda e Portogallo.
È proprio ciò che il governo spagnolo sta cercando in tutti i modi di evitare. Qui Rajoy è in buona compagnia. La pressione sulla Merkel si fa facendo infatti sempre più forte e concentrica. E l’attivismo della Moncloa è in queste ultime settimane frenetico: il ministro dell’Economia De Guindos gira le capitali d’Europa per perorare adepti alla sua causa, la vicepremier Saenz de Santamaría è volata a Washington per convincere Fmi e governo Usa che la Spagna è ancora un Paese affidabile.
Ma su Madrid si infittisce lo stormo degli avvoltoi. L’ha capito anche il Psoe, il Partito Socialista, il maggior partito di opposizione, che attraverso il suo leader Rubalcaba sta offrendo aiuto e collaborazione, nel quadro di una sostanziale unità nazionale.
Rajoy resiste, anche se la sua posizione non è più salda come sei mesi fa quando vinse le elezioni. Voci sempre più insistenti dicono che se la Spagna fosse commissariata, Rajoy potrebbe dover lasciare in favore di una “larga coalizione” che sosterebbe un governo di tecnocrati. Questo, nonostante la maggioranza elettorale più larga della storia della democrazia.
Dicono si chiami “soluzione Monti”. Ma, per com’è messa oggi la Spagna, o per come rischia di diventare se fosse intervenuta, probabilmente conviene andare un po’ più a Est, verso Atene.
Ma senza Unione europea politica e fiscale, senza una politica lungimirante e coraggiosa, è inutile che i Paesi virtuosi si illudano, o pensino di uscire indenni dalle sventure che si stanno per abbattere: oggi a ballare in punta di piedi sull’orlo del baratro sono Atene, Madrid e Lisbona ma se cadono potrebbero tirarsi giù non solo il vaso di coccio Roma ma anche il vaso di ferro Berlino e con esso ciò che nel frattempo rimane dell’Europa. Il nostro futuro compreso. source
di Simone Callisto Manca....giornalista professionista....esperienze professionali all'Ansa (tra Madrid e Roma) e al Public Affairs dell'Ambasciata Usa in Italia.