Le Beatrici è una "collana" di otto monologhi per voce femminile, inframmezzati - come in un musical o piuttosto come in un'opera di Brecht - da blues o filastrocche su una tonalità stravagante e agrodolce (che, dichiara l'autore, facevano parte di uno spettacolo intitolato Apparizioni, di una decina d'anni prima). Divertenti, divertentissime, alcune; con altre, invece, io mi trovo un po' meno in linea, ma non importa. Quel che conta è che Stefano Benni va intensificando il vigore del suo sguardo e, mentre affonda la lama del ridicolo, ferisce e strappa le redini della sua stessa comicità, giungendo in Vecchiaccia, pur nella guizzante inventiva linguistica, a uno stato di prostrazione e malinconia di cui magari si farebbe volentieri a meno, in un diversivo come questo.
Elisa Marinoni, Gisella Szaniszlò, Valentina Chico, Alice Redini, Valentina Virando e Anita Caprioli hanno dato voce in teatro a queste donne sole, recluse nella poverissima modernità che abitano quasi per caso, senza esserne mai protagoniste. Il comico che nasce dalla quotidiana consuetudine alla propria vita periferica - restituita alla scena come da una fuga dalle quinte - si volge, in Attesa, in quel senso di dramma, in quel respiro affannoso della disperazione, appena stemperato dalla fantasia à la Chagall di Volano e dal grottesco e malizioso gioco di Mademoiselle Lycanthrope. È la sintesi della canzone scritta per Fabrizio De André (Quello che non voglio) a restituire il clima ossessionato di questo libretto, il grafico di uno stato d'animo disilluso, ma non per questo meno combattivo e beffardo.