Mi son rivisto coi calzoncini corti, con le tasche piene di biglie di vetro colorate.
La frase di rito, quando ci si incontrava era “Giogausu a birigliasa?” (giochiamo alle biglie?) O più semplicemente “Giogausu?”
Per lo più si giocava per strada, in diversi modi; ma la regola d’oro era colpire la biglia dell’avversario, per poterla catturare e farla propria; si caricava il pollice con il dito medio, ritraendolo all’indietro, e si colpiva la nostra biglia con il piatto dell’unghia perpendicolare, cercando di centrare la biglia dell’avversario.
Erano di tanti colori. Splendenti e variopinte, inizialmente erano “birigliasa” (cioè “biglie” e niente più!
Poi vennero le “ciurrullinasa”, microbiglie altrettanto, se non più affascinanti delle biglie di formato standard, e “is coccusu” (i biglioni in formato gigante); c’erano “is coccusu de dexi” che costavano, per l’appunto, dieci lire; e “is coccusu de binti”, dal costo di venti lire.
Se mi offrissero una stanza da riempire con i colori che preferisco, non sceglierei diamanti, smeraldi e rubini, che attirerebbero ladri ed invidie; chiederei che la stanza fosse riempita di biglie di vetro colorate; le terrei lì, al sicuro, per rinfrescare, con la loro vista, i ricordi lontani e felici di un’infanzia povera di cose materiali ma ricca di fantasia e di libertà.