Perth, Australia, 13 mar 2012, ore 23:50, Britannia on Williams
Giornata strana. E’ iniziata molto male e poi è esplosa.
Da qualche giorno sto lavorando come proiezionista in un cinema del centro. Non è ufficiale al cento per cento, ma direi di avere avuto il posto. Stamattina ero al lavoro e stavo coprendo il turno al piano. Caramelle, biglietti, pulire le sale dopo il film, cose così. Non ero felice, non ero me, non sentivo la magia. Sarà che non conoscevo bene il lavoro e i miei colleghi non erano il massimo, sarà che il turno al piano non è il mio preferito, sarà tutto questo eppure mi sentivo parecchio giù. Poi all’improvviso suona il telefono, numero australiano. Rispondo ma mettono giù subito. Vado in bagno e richiamo. Ciao, sono Eugenio mi avete chiamato? Sì, ciao, vuoi venire a lavorare nel mio ristorante? Per una frazione di secondo ci ho pensato. E’ una cosa positiva? Lo faccio? Nuovo capo, nuove mansioni, nuovi colleghi…. Lo faccio? Gli ho risposto di sì, ho riagganciato e mi sono messo a considerare a modo la cosa tra una scatola di pop corn media e una Pepsi. Subito pensavo di voler fare troppe cose: due lavori, due orari, due mondi. Non sono tanti? Poi mi sono detto che in fondo avevo solo da guadagnarci, oltretutto che al cinema non ho ancora firmato nulla. Ne ho parlato anche con Umberto e persino lui mi ha detto di provare. “Se rimani a piedi con uno, hai sempre l’altro”. Saggio.
Mentre percorrevo i cento metri che mi separavano dalla fermata del treno di Mosman Park al ristornte mi è venuta in mente un’altra cosa. Ho pensato all’aspetto psicologico della faccenda. Se tutto fosse andato bene, allora mi sarei sentito alla grande, un vincente, uno che si mette in gioco e che ce la fa. Ma se fosse andato male? Se mi avessero detto: “No, guarda, non ci siamo. Sei un coglione, vattene!”, dopo che cosa avrei fatto? Certo mi sarei sentito inutile e magari avrei aumentato quel senso di tristezza che provavo a lavorare al cinema, forte del fatto che avrei dovuto tenermelo ben stretto quel lavoro, perchè non riuscivo a trovarne un altro. E poi….. E poi quei cento metri sono finiti, sono entrato e mi sono presentato.
Da lì in avanti è stato un inferno. Un sacco da fare, un sacco di nozioni nuove, un sacco di ricette, di piatti, di composizioni, di tutto. Piatto fondo, piatto pari, basilico, menta, prezzemolo. E’ stata dura, nulla da dire. Ad un certo punto ho per sbaglio guardato l’orologio. Quello segnava le otto, le otto soltanto. Pensavo che non avrei retto. Poi sono arrivate le nove e lo chef mi ha chiamato. Mi ha chiesto quanto tempo pensavo di rimanere a Perth. Gli ho detto che non lo sapevo, che dipendeva da un sacco di cose. Lui mi ha detto: “Saremmo fortunati se riuscissimo ad averti qui sei mesi!”. Quello è stato un gran momento. Non ho vinto una coppa del mondo e non ho scoperto la cura per il cancro, però mi sono sentito proprio un figo, come se nulla potesse fermarmi, come se potessi fare tutto. Gli ho quindi spiegato la faccenda dell’altro lavoro e lui mi ha detto che se gli do i turni del cinema per tempo, allora lui mi fa gli orari su misura. Tutto per di tenermi. Non so se sarà davvero così, però è una gran cosa.
Tutto questo non per tirarmela o per adagiarmi sugli allori. Tutto ciò per dire come sono i su e giù della vita. Ognuno ne ha avuti e ognuno ne avrà, ma due così in un giorno fanno pensare. Mi ha fatto pensare quanto abbia fatto la differenza tutto l’entusiasmo che quello chef mi ha dimostrato. Se fosse andata male adesso non starei certo scrivendo, però sono sceso in campo, ho giocato e ho vinto. Se avessi perso, e lo dico a posteriori, quindi non vale, comunque sarei uscito a testa alta solo per il fatto di aver giocato. Come disse qualcuno, il pubblico non fischia chi scende in campo, gioca la partita e perde. Il pubblico fischia quelli che se ne stanno negli spogliatoi. Ed è dannatamente vero.