Pier Paolo si impegnò sui temi inerenti alla socialità, restituendo una funzione civile alla poesia senza rinunciare a esprimere le lacerazioni insanabili della propria coscienza, a rivelare una passionalità complessa, piena di slanci e cupa disperazione. Nella volontà di tenere insieme queste diverse componenti sta il valore della posizione che egli si guadagnò tra i letterati italiani. Alla raffigurazione della Roma delle borgate, che cominciò a esplorare negli anni Cinquanta, dove miseria e bellezza selvaggia fanno tutt’uno nei corpi e nei gesti, affiancò la sua condizione di escluso dalla società borghese, di deviante da qualsiasi ortodossia, ideologica o sessuale. Ed è questo l’aspetto su cui si concentrarono le polemiche feroci, gli strali più acuminati, il sarcasmo se non l’aperta derisione, rivolti non tanto alla sua arte quanto contro la sua persona.
Pier Paolo arrivò a maturare un’interpretazione sociologica che costituì il fondamento del proprio pensiero: neocapitalismo e mass media cancellano le differenze, individuali e collettive, trasformandoci tutti in consumatori avidi di un benessere fittizio. Le scelte ideologiche e politiche restano in superficie senza più influire sui comportamenti. Il proletario ha perduto l’identità personale e sociale, guarda ai modelli piccolo-borghesi, trasforma la propria vitalità in frustrazione violenta.
Egli scelse la parte scomoda di chi non si limita a registrare i fenomeni del proprio tempo, ma da protagonista provocò e attaccò. Usò differenti forme di comunicazione, affiancando e quindi sostituendo alla poesia i giornali e (con grande spregiudicatezza sperimentale) il cinema. Fu soprattutto nella produzione filmica che, a partire dagli anni Sessanta, sfogò il bisogno ormai insopprimibile di riscrivere mito e letteratura.
Dopo il 1970 si ritagliò una figura d’intellettuale alternativo, eretico rispetto a qualsiasi forma di fede. In tutti i propri lavori c’era la lucidità del profeta che annunciava con largo anticipo ciò che stava per capitarci e la consapevolezza di non poterlo evitare. Il tema dominante dei suoi ultimi anni fu quello dell’odiosa omologazione che - ne era profondamente convinto - stava avvenendo in Italia con il passaggio dalla cultura arcaica a quella di massa, modello unico direttamente legato al consumo. L’omologazione riguardava tutti, popolo e borghesia, operai e sottoproletari: il contesto sociale si stava unificando, scompariva ogni differenza apprezzabile “al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando”. Gli italiani stavano diventando psicologicamente, culturalmente, persino fisicamente interscambiabili. Una vera e propria mutazione antropologica intessuta di sviluppo senza progresso.
La tragica e oscura morte di Pasolini ci ha privato di un grande intellettuale che aveva intrapreso un percorso solitario in continua crescita e precisazione. Ne ha accentuato le connotazioni di personaggio provocatorio, facendone (in positivo o in negativo) l’emblema di un’epoca, non ha favorito le letture critiche della sua opera. La sua esistenza umana si è chiusa il 2 novembre 1975 con una parola impossibile che ora più nessuno intende.
(Parzialmente ripreso da R. Ceserani - L. De Federicis, Il Materiale e l’Immaginario, vol. VIII, tomo II, Loescher, 1983)