Esiste un obbligo morale per gli aspiranti scrittori di comperare i libri dei piccoli editori? A mio parere no perché se fosse così allora dovrebbe anche esserci dal lato opposto e dunque nessuno dovrebbe più chiedere il contributo editoriale o l’acquisto di copie, anche per farsi leggere e valutare.
Al di là dei tanti discorsi che si possono fare sulla questione “editoria in crisi”, non bisognerebbe mai dimenticare che la casa editrice è e resta un’impresa e come tale va incontro alle leggi dell’economia. Si conquista una fetta di mercato chi ha le possibilità per farlo, chi può permettersi pubblicità e un’adeguata distribuzione. L’acquirente sarà disposto a comprare il prodotto/libro più appetibile. Non si può prescindere da tutto questo, a meno che non si crei un’associazione culturale senza scopo di lucro e volta solo alla diffusione della cultura, senza contare che chi raggiunge la tanto agognata pubblicazione non dovrebbe preoccuparsi delle vendite. Non credo a quelli che dichiarano disinteresse verso questo aspetto, le loro parole sono solo fumo negli occhi: a conti fatti si sfruttano tutti i canali possibili e immaginabili per ottenere visibilità e sperare di vendere una copia in più.L’arte non dovrebbe essere al servizio del denaro ma è così che funziona, da sempre. Nel momento in cui si mette in commercio un’opera, si presuppone che debba essere venduta al maggior numero possibile di persone. Ogni individuo deve essere libero di scegliere quali romanzi comprare e quali no. È strano non volerne prendere neanche uno dell’editore che ha ricevuto il proprio dattiloscritto ma non si possono neanche acquistare i testi di tutti quelli che ci valutano i lavori. La spesa sarebbe onerosa, soprattutto se non si ha uno stipendio.Bisogna sostenere tutta l’editoria incentivando alla lettura, perché è questo che manca all’Italia: l’amore per il libro. La gente è troppo interessata alla televisione, a vestirsi alla moda, a far provini per il nuovo reality che promette un anno di popolarità, salvo poi sparire nel marasma di divetti, topi da discoteca.È l’apparire che guida. Ecco perché ci sono tanti scrittori. Avere il proprio nome su carta stampata, anche se nessuno sa che esisti e hai piazzato dieci copie tra parenti e amici, è comunque uno status, un modo per vantarsi e illudersi d’essere “famoso”.Poco importa se non si conoscono le regole grammaticali, se si presentano storie ridicole e poco o per nulla credibili e non si possiedono neanche le tecniche base per improntare un plot narrativo.Chi sceglie di aprire una casa editrice deve essere consapevole dei rischi e non può contare sul “buon cuore” di emeriti sconosciuti. L’editore è un imprenditore e come tale deve usare tutti i mezzi, investimenti e pubblicità, per sopravvivere e farsi spazio nel mercato. Se non ci riesce probabilmente non è solo colpa dell’aspirante di turno che ha detto “no, non lo compro il tuo libro”. La responsabilità è anche sua che magari non gli ha offerto nulla di interessante. Troppe volte s’inciampa in testi con copertine orrende, errori e vicende strampalate. Acquistare un romanzo deve essere una decisione indipendente e dettata dalla voglia di leggere quell’autore perché ci ha attratti con quanto ha creato. Per me almeno funziona così. Prendo solo ciò che mi coinvolge e che ritengo meritevole di attenzione. Piccoli, medi e grandi editori non fa differenza: io guardo all’opera in sé.Questa riflessione nasce dalla lettura di due post inerenti al medesimo argomento. Uno lo trovate qui e un altro qui.
Foto di Alessandro Fondaco
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