Questo articolo è stato pubblicato ieri su Il Fatto Quotidiano.
Per lunghi anni la criminalità a Washington DC è stata americana come la torta di mele. Nelle stesse ore dell’arresto del sindaco Vincent Gray, di cui vi ho parlato nella prima parte di queste due puntate, il vostro blogger preferito si trovava sotto Capitol Hill per una breve visita, la terza nel giro di vent’anni. La città è storicamente nota per un tasso di criminalità tra i più alti d’America, conseguenza delle rivolte razziali del 1968 e dell’epidemia di crack degli anni Ottanta, che hanno portato alla fine dello scorso secolo allo svuotamento di interi quartieri soprattutto da parte dei bianchi, con una perdita di 200.000 abitanti su 800.000. Il momento peggiore, stando ai dati del DC Metropolitan Police Department, si raggiunse nel 1991 quando il Distretto di Columbia toccò il record di 471 omicidi in un anno. Da allora le cose sono nettamente migliorate, al punto che nell’ultimo Metropolitan Crime Ranking Washington figura appena al 185° fra le città più pericolose su 378 prese in considerazione sopra i 75.000 abitanti.
D’altro canto Washington DC continua a essere la città delle grandi ambasciate, delle prestigiose università (fra le altre, è sede della celeberrima Georgetown University che custodisce uno dei Dipartimenti di Italianistica migliori al mondo), nonché l’altare politico di tutti gli Stati Uniti. Il vero cuore dell’impero, e questa sensazione te la senti non solo quando cammini lungo il monumentale National Mall, oggi parco nazionale, ma anche quando osservi il resto dell’imponente architettura urbana, in stile neoclassico, forse un po’ kitsch, a giudicarlo coll’occhio del cronista romano.
A Washington, nonostante il clima umido subtropicale (al punto che per il ministero degli Esteri italiano la città è stata considerata a lungo “sede disagiata”), vivono anche molti stranieri a cominciare dagli italiani. Fra gli altri, la piemontese Caterina Fava, che ha scelto di trasferirsi qui pochi mesi fa per seguire il marito, assunto in un’università locale. “È una città molto sbilianciata”, ci dice in una breve intervista, “con gente molto ricca e potente, e molti cittadini sotto il limite della povertà e scuole pubbliche tra le peggiori in America. Tuttavia, il pericolo è a volte percepito più che reale e riguarda soprattutto certe aree demografiche, almeno per i reati di tipo violento”. Secondo Caterina, la capitale statunitense si sta riprendendo: “Non ci sono più zone off limits, come una volta. Ma una grossa ondata di furti si è verificata lo scorso Natale nei pomeriggi di shopping a Georgetown, una delle zone considerate più sicure, e certamente più ricche e ‘bianche’”. La situazione migliora anche grazie a un avviato processo di gentrificazione dei vari quartieri a Est dell’Ottava strada, lungo la North Capitol Street NW. Le impressioni di Caterina, che è anche autrice del bel blog Il piede in due scarpe, sono convalidate dalla recente analisi di Dante Chinni e James Gimple, autori del saggio Our Patchwork Nation. The Surprising Truth about “Real” America (2010), i cui dati sul Distretto di Columbia sono riassunti anche in questo sito internet e parlano di una città abitata in maggioranza da persone “istruite e connesse al tessuto sociale”.
Anche se non ha alcuna rilevanza statistica, ho condotto sulla mia pelle un micro esperimento sociologico che si è concluso senza problemi. Assieme alla mia fidanzata – caraibica e dunque di pelle nera – abbiamo passeggiato mano nella mano su e giù per North Capitol Street NW, passando attraverso gruppi di giovani neri disoccupati che ci guardavano come se venissimo da Marte–o da Toronto, come in effetti denunciava la mia maglietta universitaria. Sì, le coppie miste a Washington DC sono molto meno comuni che a Toronto, e gli sguardi di sorpresa, interrogazione o disapprovazione che abbiamo raccolto sono venuti in ugual misura da tutti o quasi i passanti afro-americani (a Est dell’Ottava strada) e poi da tutti o quasi i passanti di pelle bianca (a Ovest dell’Ottava strada).
Eppure la mia compagna e io abbiamo camminato tranquilli, non ignorati ma nemmeno insultati o importunati dai ragazzotti perditempo dai muscoli guizzanti, che si sono spinti al massimo a salutare con un cordiale “Hello”. Lungo lo stesso tragitto al ritorno, credo colto da un raptus di spirito d’abnegazione per Il Fatto, io avevo sotto braccio la classica busta marrone del negozio di liquori (negli USA è vietato mostrare l’alcool in pubblico, sic) con dentro due buone bottiglie di rosso italiano. Nonostante la chiara familiarità con l’etilismo dei nostri vicini, nessuno ci ha detto nulla e siamo arrivati a destinazione solo con il problema di una lieve insolazione per me, visti i 30 gradi centigradi inaspettati di un giorno d’aprile. Per una volta, l’unico a discriminare sulla base del colore della pelle è stato il sole.