Nel 1980 è emigrato negli Stati Uniti con la madre e la sorella per raggiungere il padre, che era fuggito dalla rivoluzione comunista in Etiopia (quattro anni dopo la caduta di Haile Selassie e tre anni dopo il colpo di stato comunista).
Si è laureato alla Georgetown University e ha scritto per Harper’s, Jane e Rolling Stone.
Il suo romanzo d’esordio, Le cose belle che porta il cielo (2007, in Italia lo stampa Piemme), ha ricevuto numerosi riconoscimenti (ha vinto, tra l’altro, il Guardian First Book Award 2007) e raccolto elogi dalla critica per la sua descrizione delle esperienze degli immigrati in America.
L’illusione della terra delle opportunità, l’isolamento e la frustrazione della vita degli immigrati rappresentano i temi centrali attorno a cui ruota questa coinvolgente storia (il protagonista Sepha Stephanos è alla ricerca “di una sorta di casa… quello che penso sia un sentimento universale e piuttosto comune”, ha detto Mengestu in una recente intervista).
Le cose belle che porta il cielo è stato particolarmente elogiato dal New York Times Book Review come un “grande romanzo africano, un grande romanzo di Washington e un grande romanzo americano”.
La sua scrittura, intelligente e riflessiva, è stata paragonata a quelle di Bellow, Fitzgerald e Naipaul e ci fa capire come locale e globale siano due aspetti inseparabili e quanto la politica (intesa davvero come teoria della polis, come sistema di relazioni fra gli uomini) sia così fortemente intrecciata alla nostra vita.
Il romanzo è ambientato interamente a Washington DC ed è una miscela di realtà e finzione. Una narrazione struggente e potente, un romanzo profondamente sentito che merita di essere letto.
Non può essere definito un romanzo africano e neppure un romanzo afro-americano. E’ un romanzo sull’America con tutte le sue identità contrastanti che tocca molti aspetti troppo spesso ignorati.
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