In un certo senso, ovvero quello del racconto e non quello della produzione, Le cose belle è un film lungo 14 anni. Era il 1999 quando l’accoppiata Ferrente-Piperno gira per Rai 3 il documentario Intervista a mia madre, mettendo davanti alla macchina da presa quattro scugnizzi, che nel film ritroviamo adulti e “inguaiati” nella e dalla vita. Quattordici anni dopo i due documentaristi tornano sul campo, in strada, nei vicoli e nelle case di questi uomini e donne dimenticati dal mondo, che arrancano ogni santo giorno per (soprav)vivere. Lo sguardo non è di denuncia né pietoso o impietosito. Ferrente e Piperno lasciano intatta la dignità delle persone (e non personaggi) con cui si confrontano. C’è rispetto, empatia, bontà d’animo ma nulla è ingigantito né ridimensionato. Le cose belle mostra la realtà, nuda e cruda, di una Napoli che pare un microcosmo staccato dall’Italia, una terra di tutti e di nessuno di cui non curarsi. L’occhio della macchina da presa riesce laddove la televisione spesso non arriva, sospinta continuamente dalla smania dello scoop e del sensazionalismo. Le cose belle è bello proprio perché vergine dell’incedere melodrammatico a cui la Tv ci ha ormai assuefatto.
Insomma, Le cose belle è un film minuscolo, una perla che nel suo piccolo cuore racchiude un grande e lucente valore: riesce a fare il punto sulla Napoli di oggi, sulle sue ingessate e inespresse ambizioni, sul suo futuro solamente sognato, sulle difficoltà di chi la ama e vorrebbe venirne fuori. Dalla vita in quel di Napoli, ma non dalla propria città natale.
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