Le cose cambiano: “Il coraggio di essere un supereroe”

Da Uiallalla
Marcello Signore, 24enne napoletano (protagonista della webseries Pausa Pranzo su gay.tv, della trasmissione Mi chiamo nerd su La3, blogger di Huffington Post e conduttore di Occupy Deejay su DeejayTV), è tra gli autori di “Le cose cambiano” (ISBN editore, in libreria, edicola, ebook). Vi proponiamo il suo racconto. Il libro sarà presentato a Napoli sabato 7 dicembre alla libreria Ubik (ore 17.30, via Benedetto Croce, 29)

Avete mai sognato di avere un superpotere? Io da ragazzino volevo fermare il tempo, come una famosa eroina della televisione. Bang, un movimento un po’ drammatico con le mani e tutti fermi finché non lo decido io. Non volevo la superforza. Non volevo essere invisibile per spiare nelle docce. Io volevo che il tempo si fermasse. Mi sarebbero bastati sette minuti, quelli che ci mettevo tutte le mattine da casa mia alla metropolitana per arrivare a scuola. «O’ vir, sta passann o ricchion», lo sapevo che i guappi del quartiere parlavano di me. Lo dicevano ogni giorno, con così tanto disprezzo che anche se non sapevo ancora cosa significasse essere «ricchion», avevo l’impressione che fosse una cosa brutta, una disgrazia.

L’unica cosa che sapevo, a quell’età, era che da grande volevo fare l’egittologo. Avevo letto tutti i libri in circolazione su Ramses il Grande, chiedendo anche ai miei genitori il permesso di restare alzato fino a tardi per vedere lo sceneggiato del Settimo papiro con Valeria Marini. Ok, iniziavo già da piccolo ad amare le «mummie», ma il punto è che Ramses era il mio modello di coraggio. Perché lui era un faraone cazzuto che faceva colazione con gli scorpioni e guidava le bighe in giubbino di pelle di coccodrillo. Era l’equivalente avanti Cristo di Chuck Norris. E io volevo essere come lui.

Perciò, il giorno in cui i bulli del quartiere mi hanno fermato per strada dicendomi: «Ma non ti metti scuorno che sei femminello?», io mi sono detto che dovevo essere il Ramses di Napoli, e mettere fine a quella storia una volta per tutte. Così ho risposto: «E mammeta? Non si mette scuorno ca ten nu figlio strunz comm’a tte?». Ripensandoci, forse è proprio lì che ho deciso quale sarebbe stato il mio superpotere: il coraggio.

E indovinate da chi l’ho ereditato? Mia mamma è una tipa mingherlina con un sacco di capelli, assomiglia alla guerriera di uno di quei giochi di ruolo online sul Medioevo. Pratica un’arte marziale con la spada ed è una santona zen yoga. Un giorno Mamma Yoga è a mangiare la pizza con i suoi compagni di pratica e vede che al tavolo accanto un ragazzo sta festeggiando. Solo che non si tratta di un compleanno: sta festeggiando il suo coming out insieme agli amici. Niente tanti auguri a te, ma c’è una torta a forma di cigno fatta con la pasta di pizza. Allora mia mamma si alza e va a stringere la mano al festeggiato. «Complimenti» gli dice «hai fatto una bella cosa.»

Mio padre, invece, non sarà un faraone egizio e non praticherà le arti marziali, ma è un guerriero anche lui. Forse un po’ meno riflessivo, e un po’ più esuberante, diciamo così. Questo lato l’ho preso da lui. Da bambino non stavo mai fermo: a quattro anni giocavo a mettermi un cesto di frutta in testa per fare Marisa Laurito, Il babbà è una cosa seria. E poi parlavo in continuazione.

Lo dicevano tutti: «Marcello è così bravo, ma se stesse un pochino zitto…». Una volta lo disse anche il mio professore di educazione tecnica, davanti a tutta la classe: «Stai zitto, non fare il ricchione». Secondo lui stavo disturbando la classe e perciò dovevo smetterla di agitare le squadrette come, appunto, «un ricchione». Quel giorno, quando sono tornato a casa, se ne sono accorti tutti che mi era successo qualcosa. Non ero più spontaneo, non ero più esuberante. Avevo perso quel- la mia piccola innocenza, con un paio di squadrette in mano, durante l’ora di educazione tecnica. «Il professore mi ha detto…» silenzio «che sono…» silenzio, sapevo di non averlo detto io, ma sembrava così brutto da ripetere, come se una profezia vergognosa potesse avverarsi «… che non devo fare il ricchione.»

Per mio padre, chiunque avesse offuscato il mio modo di fare doveva pagarla cara. Così è andato dal professore di educazione tecnica e gli ha dato una bella lezione, di educazione e basta. Ancora prima di sapere che ero gay, ancora prima che uscissi allo scoperto, mio padre prendeva già a calci i cattivi di questo brutto videogame che è l’omofobia. Era già il mio eroe.

La strada da lì a papà che canta Born This Way al gay pride mentre io cammino imbarazzato sul marciapiede di Mergellina con addosso una formalissima polo, è stata lunga. Nessun genitore spera che tu «ti metta una calzamaglia per combattere il crimine», perché il mondo gli sembra già un posto pericoloso così, senza bisogno che tu faccia l’eroe. Nel nostro passato ci sono stati anche momenti in cui abbiamo pensato che non ce l’avremmo fatta più a volerci bene. Di quei momenti ora non parliamo mai, ma è da lì che veniamo, da quel disastro che è stata la nostra vita insieme. Non siamo nati eroi, lo siamo diventati a poco a poco.

Provate a prendere questo libro e ad avvicinarlo alla faccia fino a toccarvi il naso. Riuscite a vederci qualcosa? Ecco. Quando si è troppo vicini, si finisce per non vedersi più. Come facevano i miei genitori a non capire che ero gay? Perché dovevo addirittura dirglielo? Non bastavano le mie mèches bionde? A quanto pare no, visto che alla fine gliel’ho dovuto proprio dire, anzi urlare in faccia: «Sono gay, va bene? Ah!» come a dire «E mo’? Mo’ basta!».

Avevo diciassette anni. Ero abbastanza grande per guidare una macchina 50 truccata nel quartiere o comprare la birra, ma secondo mia madre – come mi disse il giorno dopo che avevo sganciato la «bomba di Maradona» – la mia era una «scelta avventata, magari una fase». A quelle parole mi sono arrabbiato tantissimo. Dentro di me ero così sicuro, ma così sicuro, da rischiare tutto pur di dirglielo, e ora? Lei quasi non ci credeva! Voleva contrattare. Un po’ più che etero, un po’ meno che gay? Centoventi grammi signora, che faccio lascio? Papà invece era solo riuscito a farfugliare, stropicciandosi le mani: «È per qualcosa che ho detto? È per qualcosa che ho fatto? Ma perché non me l’hai detto prima?» e poi è stato zitto, per anni, si è messo in standby mentre pensava al da farsi. «Se solo ne avesse parlato prima…» è stato il commento di papà quando ha letto sul giornale la storia di Diego, un ragazzino di Ischia che si è gettato dall’ultimo piano del suo liceo. Era vittima dei suoi bulli. Era il 2007.

Qualche anno più tardi mio padre è diventato lo psicologo del quartiere perché «qualcuno deve pur fare qualcosa» e ogni tanto se c’è qualche ragazzo in difficoltà per via dei suoi superpoteri me lo racconta. Una sera, fuori dal suo studio, ad aspettarlo c’è Mira, la mamma di Diego. Dice di aver sentito parlare di lui al telegiornale, dopo un convegno contro il bullismo che aveva tenuto qualche settimana prima. E così lui e Mira diventano amici. Papà mi ha raccontato un particolare della storia di Diego che mi ha colpito molto: poco prima che si togliesse la vita a scuola c’erano state le elezioni per il rappresentante di classe. Ricordo di aver sorriso perché ci avevo provato anch’io una volta, ma avevo ricevuto un solo voto: il mio. Anche Diego si era candidato, e anche lui aveva ricevuto un solo voto: al posto del suo nome però c’era scritto un messaggio orribile. L’ennesima presa in giro. Ancora oggi penso che sarebbe bastato un voto, uno e basta, e forse Diego si sarebbe sentito meno solo, e forse… ma niente, zero. Zero è anche il numero dei compagni di classe che sono andati al suo funerale. Zero è anche il punteggio che totalizzano i diritti lgbt in Italia. Zero, è quanto si sentivano Andrea, il ragazzo con i pantaloni rosa, e Stefano, il quattordicenne che il 7 agosto di quest’anno si è suicidato a Roma lasciando scritto Sono gay e nessuno capisce il mio dramma. Da zero a centinaia di parole, quelle di Stefano, salvate per suo padre su una pen drive. Caro papà, non so come dirtelo che sono gay. E quindi, dopo avergli dato la buonanotte, quella sera Stefano è salito sul terrazzo per mettere fine al suo dramma, come l’aveva chiamato lui.

Ancora oggi c’è chi, come Stefano, pensa che sia quella sia l’unica soluzione. «L’unica soluzione è non dirgli niente» mi scrive via email Roberto, uno dei ragazzi che mi seguono, dopo aver letto un mio pensiero sulla scomparsa di Stefano «perché, Marcello, io non so che cosa fare, mio padre ogni volta che sente parlare di omosessuali al telegiornale dice che un figlio frocio lo ammazza, e mia mamma invece sta già con il telefono in mano pronta a chiamare il parroco del paese per vedere se riesce ad aggiustarmi.» Forse Roberto ci sta ancora pensando su, a me piace pensare che abbia trovato il coraggio di dirlo ai suoi genitori, e che per lui le cose siano cambiate.

Leggendo la mia storia, avrete pensato che io sia stato molto fortunato, ma non è così. La fortuna non c’entra niente. Fortuna è quando ho vinto un cappellino comprando una confezione di wurstel. Qui invece è una questione di impegno. Io e la mia famiglia ci siamo fatti il mazzo.
Spesso commettiamo la leggerezza di pensare che i nostri genitori ci debbano amare per forza. Ma la forza si sposa male con l’amore. L’amore secondo me si costruisce. E per costruire bisogna partire dal basso. Per me i momenti bassi sono stati ritrovarmi senza chiavi di casa e prendere le botte da mia mamma che mi aspettava con la mazza dietro la porta quando tornavo dalle serate in discoteca perché «chissà dov’ero stato». Basso è papà che per la rabbia ha sradicato dalla parete i fili del telefono perché non voleva che mi collegassi più «a quei siti» e che ha buttato tutti i miei vestiti fuori dalla porta. In quei momenti ero così in basso, che mi sembrava di aver fatto tutto fuorché la scelta giusta. Ma chi me l’ha fatto fare? Meglio non dire niente, no?

Ho letto un sacco di cose stupide sul coming out: «Fare coming out è inutile» perché «i miei genitori sono vecchi e sarebbe un atto di egoismo», oppure «non ne sento l’esigenza», o «tanto lo sanno, non c’è bisogno che glielo dica, no?». No! E non vale solo per i genitori, vale per tutti. Se è vero che amarsi è una costruzione, nessuno riesce a costruire niente se è troppo impegnato a giocare a nascondino. Uscire allo scoperto è per i co- raggiosi. Cristoforo Colombo non ha scoperto l’America chiuso nella stiva della sua nave. Leonardo Da Vinci non ha fatto volare la sua macchina senza uscire dallo sgabuzzino. Ramses il Grande non ha sconfitto gli Ittiti combattendo dietro un canneto sul fiume Nilo.

Ci vuole coraggio per essere supereroi. Avete costumi e poteri diversi, ma fate parte della stessa famiglia, della stessa comunità, e nessuno può fare il bullo con voi. È vero che dai vostri poteri spesso derivano guai o dispiaceri (e chiunque abbia letto almeno un fumetto sa che da un grande potere derivano grandi responsabilità), ma non sono paragonabili a tutte le cose belle che potrete realizzare svolazzando per la città in calzama- glia. E non c’è bisogno che ve lo faccia notare io, quanto il mondo abbia bisogno di eroi in un momento come questo. Coraggiosi, come Ramses il Grande, come la mia mamma o il mio papà, come voi. E i cattivi? Quelli vanno presi a calci in culo.

Ogni supereroe ha il suo punto debole, e il tuo magari sono proprio le prese in giro, gli spintoni. Forse il tuo arcinemico, il tuo supercattivo, è il bullo. E proprio come un vero supereroe, per sconfiggerlo hai bisogno di qualcuno che stia al tuo fianco, che ti voglia bene: la tua Lois Lane, il tuo Robin, la tua zia May. Anche se la tua supervista fa i capricci e ti sembra di non vedere nessuno al tuo fianco, ti sbagli, non sei da solo. Le persone che hai attorno a te sono le uniche che possono salvarti: un amico, un genitore, un insegnante, io. È a queste persone che devi chiedere aiuto. Scrivi una lettera, fai una telefonata, manda un messaggio su Fa- cebook, Mamma, non ce la faccio più, devo dirti una cosa. Loro ti salveranno: il loro superpotere è quello di cambiare le cose.


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