Colpisce la trasparenza e l’onestà della sua scrittura, l’analisi lucida e brillante vissuta e raccontata dall’interno di un nucleo familiare molto particolare.
Le cose che non ho detto è una storia personale, ma anche sociale e storica. Una storia che alimenta un senso di nostalgia per un passato (forse) rimosso e soffocato dalla storia recente.
“Durante la Rivoluzione avevo capito quanto fosse fragile la nostra esistenza (…) con quanta facilità tutto quello che crediamo casa può esserci portato via. E ho capito che quello che mio padre mi aveva insegnato con l’immaginazione era un modo per costruirmi una casa oltre i confini geografici e le nazionalità, che nessuno potrà mai portarmi via.”.
È bello però anche perdersi nelle lunghe descrizioni che riguardano l’Iran e città splendide come Isfahan con i suoi magnifici ponti che sembrano filigrana. Ma soprattutto è straordinario capire da Azar come sono tante e varie le forme del silenzio. Quello che una tirannia impone ai propri cittadini, rubando loro i ricordi oppure quello dei testimoni che scelgono di tacere sulla verità. Soprattutto il silenzio che concediamo a noi stessi, “la nostra personale mitologia, le storie che sovrapponiamo alle nostre vite reali”.
Azar Nafisi, Le cose che non ho detto, traduzione di Ombretta Giumelli, Gli Adelphi, Adelphi 2015.