Una volta conoscevo un artista circense. Faceva il mimo di mestiere, aveva studiato alla scuola del grandissimo Marcel Marceau. Lui mimava vite non sue e luoghi nei quali vivere. Poi la malattia l'ha devastato dentro e fuori, ed è morto a 31 anni portando con sé le stesse vite che mimava e lasciando a me una roulotte nella quale teneva di tutto, compresi i libri mai letti che gli avevo regalato. Era un amico, per me, ed io ero un'amica per lui. La profondità dei suoi occhi neri di origine tunisina, mi aveva insegnato che siamo come le lumache, procediamo lentamente trascinando dietro la nostra casa, i nostri oggetti, i nostri abiti per ogni occasione. E nello spostarci lasciamo dietro di noi una scia luccicante, che asciugandosi, però, non lascia traccia.
L'idea di volere assolutamente lasciare qualche segno, ci spinge a figliare, a mettere firme ovunque, a creare un qualcosa che porti il nostro cognome con onore e gloria. Per quando non ci saremo più, certo, ma anche per essere qualcosa di evidente, qualcuno di rilevante. Per occupare il nostro posto nell'orchestra, e suonare il nostro strumento accordato insieme agli altri, magari sognare di essere quel primo violino che dà il La prima del concerto e che si distingue dall'ensemble degli altri orchestrali, con voce solista.
Il mio amico Pierre Taleb, diceva sempre una cosa che a molti risulta ovvia, ma che adoravo dicesse: gli oggetti non valgono per il loro valore intrinseco, ma per ciò che sono e che rappresentano. Per cui se possiedi un anello con diamanti che non ti ricorda niente, vendilo, e comprati un viaggio da fare da solo o con qualcuno. O compra un divano letto per l'ospite che non hai mai potuto invitare a casa tua.
Quando entro nella mia casa sarda, come è successo questo fine settimana prolungato, ritrovo le tracce. Non sono solo tracce estive, sono anche oggetti invernali portati durante l'anno, ricordi di capodanni esposti al maestrale, tappi di spumante con sopra incisa la data - vecchio vizio di mio padre -. Date di compleanni, anniversari, accaduti cinque, sei, otto, persino 28 anni fa. Asciugamani con le iniziali ricamate sopra, ma di chi? Di qualche ospite che le ha lasciate, di una zia, un cugino, forse di un'amica di mio fratello. Oppure rubate negli alberghi o nei traghetti.
Angoli di casa dove si sono consumate tresche estive; posti in giardino cambiati dalla natura, ma che portano lo stesso odore di quella volta "che ti ricordi quando ci siamo mangiati la pasta con le acciughe e tu eri ubriaca".
Anche aprire l'armadietto del bagno è un viaggio nei ricordi. Le tracce anno dopo anno sono rimaste là, ingabbiate. Il Cicatrene comprato da me nel 2009 quando mi sono raschiata il braccio sugli scogli; la Tachipirina sempre nuova da quando abbiamo bambini; un solvente per smalto di marca francese, quello forse era di mia madre quando venne nel 2001; una bomboletta che si chiama Silent per evitare di russare (c'è un'indagine in corso, ancora non ho capito a chi è appartenuta); l'aspirina americana di mio fratello, la confezione da 100 pasticche; lime per unghie e pinzette dimenticate là da tutti, una vecchissima cipria, forse di mia nonna.
La libreria che mio padre tenta faticosamente di mantenere coerente, quindi solo libri di storia sarda e del mediterraneo, viene disordinata dai dvd dei cartoni animati, da romanzetti gialli estivi comprati a 5 euri e abbandonati là in attesa che qualcuno li veda, li prenda e se li porti sul comodino o in spiaggia, per poi non leggerli, ovviamente. Da scatole di pastelli colorati e di acquerelli che servono a mio fratello per dipingere e ai bambini per fare i loro capolavori. Le carte nautiche, altro orgoglio paterno, così perfettamente incorniciate ed appese ai muri del soggiorno, devastate dai post-it artigianali dei bambini, dai fogli con gli appunti di una partita a carte, vinta da N.L. e giocata contro IO, Giorgia B. e TU. Chi siano non lo so, e come con le asciugamani cifrate la mia mente viaggia tra i nomi e i cognomi degli ospiti, degli amici, degli amici degli amici. E ripercorro voci, idee, volti, di persone che quasi dimenticavo, ma che hanno trascorso settimane a casa nostra, giorni, notti, pranzi e cene di 6 ore.
Poi ci sono i capisaldi:
- La felpa della morta
Da quando la casa appartiene a me e a mio fratello, non disdegniamo ogni tanto di affittarla, cosa che mio padre detesta a tal punto da definirci "figli attaccati ai soldi ebbasta". Una volta l'abbiamo affittata ad una coppia di Bergamo. Lei aveva lasciato una felpa nera, che non ha voluto indietro. Le avevo parlato al telefono per chiederle se voleva che gliela spedissi, e ricordo benissimo che mi aveva detto "tienila tu, è di marca sai, l'ho comprata da Sport Center una volta che tirava un maestralaccio terribile, ma non l'ho mai messa e l'ho lasciata là apposta". L'anno dopo siamo venuti a sapere che la poverina era morta, ma la sua felpa nera comprata in un giorno ventoso, è sempre nel nostro armadio. Non riesco a buttarla via, voglio che rimanga a casa nostra. Mio fratello mi deride da cinque anni chiedendomi se ho buttato la felpa della morta. Felpa che tra l'altro è tornata utilissima in diverse occasioni, quando ad esempio qualche signora o signorina ignara del clima delle serate maddalenine di luglio, viene a cena da noi tutta scollacciata e poi muore di freddo come un merluzzo della Findus.
- La maschera di nonno
Mio nonno David, israeliano fino al midollo, era un grandissimo pescatore di frodo. Nel senso che una ventina di anni fa praticava la pesca subacquea con il fucile nelle smeraldine acque dell'arcipelago maddalenino. Lo detestavamo e glielo dicevamo tutti, compresa sua figlia. Aveva una maschera gialla, abbastanza ridicola che io definivo "da sommozzatore" per imponenza e forma. Nonno non è più venuto perché offeso dal nostro atteggiamento che definiva "ridicolmente e esageratamente animalista", e la maschera è rimasta nell'armadio a muro dove teniamo le cose per il mare. Quando qualcuno perde la maschera o ne è sprovvisto, si prende quella di nonno aggiungendo "tanto non mi vede nessuno, me la metto al largo".
- Il wok e la pescieraIl wok che teniamo in cucina credo sia stato uno dei primi apparsi in occidente. Pesa una tonnellata perché di ghisa, è enorme, e mio padre lo portò da Ginevra in aereo, quando ancora si poteva viaggiare senza denudarsi e/o giustificarsi. Questo wok ha visto di tutto, dalla paella reinventata, al cuscus rigorosamente israeliano, fino alla pasta con i ricci. Tace in cucina sopra il mobile, avvolto in una busta azzurrina. Non entra in nessun scaffale, e suscita sempre la solita domanda negli avventori "ma là, sopra lo scaffale, cosa c'è?", la risposta sarcastica di mio fratello è sempre "un souvenir orientale in ghisa per cucinare cose che si possono fare anche in una padella antiaderente".
La pesciera, invece, ha tutta un'altra storia ed altri connotati.
E' un tegamone in acciaio lungo e stretto, con il coperchio e un altro tegamone forato al suo interno per scolare il pescione una volta lessato. Credo sia la dimensione più grossa di pesciera in commercio, e venne regalata a mio fratello quando si sposò. Sempre sarcasticamente, dice che ha divorziato per potersi disfare soprattutto della pesciera. Ricordo ancora sto pacco enorme avvolto in una carta dorata damascata, e ricordo benissimo il luccichìo negli occhi di mia cognata quando si trovò davanti al regalo, chissà cosa sperava ci fosse dentro. Ma indelebile è il ricordo della delusione quando scoprì la pesciera. "Dai, ti compri una ricciola da venti chili e inviti gggente", le ho detto per tirarle su il morale "No, vi serve al mare" fu la sua secca risposta. E infatti ci serve tantissimo, tanto da trovare posto nell'armadio delle coperte. E' messa in modo che tutte le volte che si prende una coperta, lei sporge strisciando sul legno dell'armadio e a volte casca producendo un frastuono che perfora i timpani.
Questa estate, verso le tre di notte, io e Steve abbiamo sentito il frastuono di cui sopra, e mio marito "tranquilla, è solo qualcuno che sente freddo ma la pesciera non è d'accordo".
- L'olivo di Natale
Diversi Natali fa, abbiamo scelto di passare le feste alla Maddalena. Tutti. Famiglie e famiglie allargate comprese. Durante i preparativi abbiamo stabilito (ho deciso io, lo ammetto) che il tradizionale abete addobbato, stonava un po' con l'ambiente, così come una cozza in Val D'Aosta. Mio fratello è stato obbligato ad andare al vivaio di Arzachena per comprare un olivo in vaso, che ha trovato posto al centro della sala. I bambini si sono divertiti ad addobbarlo il 24 dicembre, dopo che li avevamo costretti a produrre con l'argilla e le tempere addobbi a forma di "qualcosa di marino e al tempo stesso natalizio" come ordinò mio padre. Mio nipote fece uno squalo con le gambe e i denti insanguinati. Papà acconsentì controvoglia ad appendere quell'orrido addobbo insieme alle stelline marine colorate e ai pesciolini con i cappelli di Babbo Natale "il Natale è una festa importantissima per i cristiani, non si deride" ammonì così Matthieu, il quale sottolineò il fatto che l'uomo squalo è ebreo come lui, e scusandosi disse che non aveva capito. Fu una risposta così bella che mio padre decise di premiare mio nipote mettendo l'addobbo orrorifico in cima all'albero, ben evidente.
Dopo le feste l'olivo fu liberato dagli addobbi, Teresa, la signora che si occupa della casa quando noi non ci siamo, lasciò lo squalo-uomo killer in cima all'albero perché troppo in alto. La pianta fu portata fuori in giardino con il suo addobbo insanguinato. La figura in argilla è ancora là, un po' scolorita, la tempera rossa che simula il sangue ha assunto il colore del mandarino, ma il vento non ha sradicato l'addobbo di Matthieu. Mio nipote oggi ha 10 anni et utte le volte che passa dall'olivo mi dice che è stato il più bel Natale di tutta la sua vita, l'unico nel quale ha potuto essere veramente creativo.
- Il telo di Braccio Di Ferro
I teli per il mare sono articoli in continua evoluzione, cambiano con gli anni, diminuiscono, aumentano. Solo uno è sempre là: il mio asciugamano di Braccio Di Ferro. Mio fratello a 16 anni era già in fissa con New York, passò tre mesi in quella città. Al suo ritorno mi portò, tra le altre cose, l'asciugamano di Popeye comprato nonsodove per pochi dollari. "gli americani hanno cotone e spugne ottimi!" disse mia nonna con il suo asciugamano da 5$ fiorato in mano. Forse lei pensava alle piantagioni, ai negrieri, all'epopea degli stati del caffè e del tabacco. Io penso al gesto affettuoso di un fratello per la sua sorellina di dieci anni, penso al fatto che la copertina di Linus è comunque un qualcosa di cui abbiamo bisogno un po' tutti. Il mio asciugamano di Popeye non lo presto a nessuno, e si trova nell'unica casa dove so che ogni tanto torno. L'unica roulotte che conosco da quando sono nata.
Post dedicato al mio amico Pierre Taleb, che mi manca da due anni. Gli ultimi tempi comunicavo con lui solo tramite Skype e email, perché mi trovavo in Brasile in quel periodo. Lui aveva la passione per i Mon Cheri, i cioccolatini della Ferrero che io gli portavo tutte le volte che andavo in Francia dall'Italia. Passione condivisa con la sottoscritta, per altro. Mi chiese di scrivergli perché mi piacessero ed io gli mandai un'email che gli piacque tantissimo, talmente tanto da farmi giurare di pubblicarla sul blog in modo che chiunque la potesse leggere. Io non la pubblicai, era una cosa nostra e ne ero gelosa. Ma credo che avesse ragione, in fondo è solo un cioccolatino, quindi traduco e l'appiccico qui sotto.
...noi (io e te, non è un noi globale) preferiamo i Mon Cheri, ma la nostra non è una preferenza dettata dalla pancia e basta, c'è tutta una filosofia dietro e una gamma di sensazioni erotiche da far impallidire Anaïs Nin.
Cominciamo con l'involucro. Il Mon Cheri è avvolto da una doppio strato di carta. Il primo è trasparente, lucido, e lascia intravedere ciò che c'è sotto. La carta stagnola rosa sotto il primo strato, è quasi vellutata, morbida come la pelle appena idratata, ed è di un rosa antico, ottocentesco. Mentre mangi il cioccolatino, non puoi fare a meno di stirarla con le dita, aprirla, accarezzarla fino a levarle tutte le pieghe, fino a renderla un quadratino morbido come un petalo di rosa, come le labbra di una fanciulla vergine in un quadro preraffaellita. Penso sempre che schiudere, aprire un Mon Cheri, sia come baciare, entrare a contatto con qualcosa di ignoto che puoi solo immaginare ma mai sapere con certezza come sarà.
Una volta scartato, il cioccolatino si presenta a noi scuro, lucidissimo, a forma di scrigno con la parte superiore rigata, in modo che possa essere preso senza che scivoli, e qui proporrei un applauso all'ingegnere progettista. Non è come, ad esempio, il Lindor, che per quanto buono e caruccio, ha un aspetto poco rassicurante, hai sempre paura ti sfugga di mano come una pallina da ping pong. Le dimensioni del Mon Cheri sono perfette per una bocca femminile, e per alcune bocche piccole maschili (non ridere, ti vedo che stai ridendo, sai). Entra con delicatezza, ma al tempo stesso con fermezza e determinazione, e lo si adagia sulla lingua perché si sa che dentro è liquido. Mentre con gli altri cioccolatini, come ad esempio i gianduiotti, ti puoi permettere di addentarli e persino di vederne il contenuto, il Mon Cheri dentro non si può vedere, ma solo sentire. E' un cioccolatino che contiene dei segreti, e solamente i privi di poesia lo rompono sul tovagliolo per vedere cosa c'è dentro, per analizzarlo facendogli subire una vera e propria violenza. Una volta posato sulla lingua, hai due scelte: o lo sciogli in bocca pianissimo fino a romperlo, o lo mordi. Io scelgo sempre di morderlo perché adoro tutto ciò che è croccante, e lui lo è, orgogliosamente. Quando lo rompi arriva l'apice del piacere, il liquido non sai neanche cosa sia, forse rum, ma poco importa, quel che conta e che ti scalda il cuore, pervade la mente, il corpo, come quando si è innamorati. Tra l'elisir e il cioccolato fondente, avverti l'acido dolce della ciliegia, che è il nucleo, il fulcro attorno al quale ruota la filosofia del Mon Cheri. La ciliegia non è croccante quanto l'involucro, né liquida quanto il liquore, è una via di mezzo, ed è sferica, a differenza dello scrigno che la contiene. E' frutta, è organica, una volta stava sull'albero; è maturata al sole, ha vissuto per essere racchiusa dentro ad un segreto. E' proibita, la poi raggiungere solo se scegli di provare anche le altre sensazioni che il Mon Cheri è disposto a darti. Sta a te scegliere.
ciao Pierre