4. Il bruciante Sol Levante: il fenomeno Guinea Pig e altri Japanese shockers
Analizzare un territorio ampio e fertile come quello della cinematografia orientale sarebbe impresa quasi titanica, che richiederebbe lo spazio di un intero volume: l’immaginario filmico giapponese abbonda di sotto-testi e influenze, e ciò non stupisce visto che si tratta di un Paese con importanti (e ingombranti) eredità culturali e storiche. Dal teatro Kabuki, in cui spesso venivano messe in scena storie truculente, passando per le leggende di demoni e fantasmi fino all’inenarrabile orrore reale di Hiroshima e Nagasaki, il bagaglio del cinema nipponico si fa carico cupo e doloroso, dalle sue forme più alte fino all’expolitation più estrema. Il sangue scorreva copioso già nei chambara, i film di samurai (o, per esteso, di spadaccini), e la crudeltà è stata spesso messa in scena in modo esplicito. Si può quindi dire che l’estremo abbia sempre permeato, più o meno sottopelle, il visivo giapponese, sia nelle forme di violenza che in quelle di contenuti sessuali (e spesso, in entrambe contemporaneamente); risale ai primi anni ’60 la nascita dei pinku eiga (letteralmente, film rosa), pellicole pornografiche che mostrano quella che sarà caratteristica ricorrente dell’eros made in Japan: una misoginia di fondo, una visione della donna dal punto di vista univoco del desiderio maschile, che sfocia in degenerazioni come il sado-maso, gli abusi, stupri e torture. A inaugurare questa pornografia scomoda è Market of flesh (Nikutai no ichiba, 1962), di Satoru Kobayashi, di cui rimangano solo 21 dei 49 minuti originari, a causa dei tagli censori.
Sempre negli anni ’60 il genere eroguro (erotic grotesque nonsense), già noto in letteratura e in cui il connubio sessualità e cruenza si fa definitivamente esplicito, approda al cinema con titoli come Jigoku (1960), di Nobuo Nakagawa, opera potente e visionaria (la parte finale vede un’ambientazione infera), assai al di sopra della media delle pellicole del medesimo filone. Al di fuori di ogni sottogenere, è d’obbligo citare Onibaba (1964), di Kaneto Shindô, uno dei capolavori dell’orrorifico nipponico, per lungo tempo bandito in Gran Bretagna a causa delle esplicite scene di sesso e pregno di significati che lo collocano al di fuori della massa dei semplici prodotti shocker. Tornando nell’ambito dell’exploitation, ma sempre con accenti degni di nota, è doveroso ricordare anche le opere di Teruo Ishii, definito il “Rachmaninoff del ripugnante” dal critico Chuck Stevens : su tutti, Horror of a deformed Man (Edogawa ranpo taizen: kyofu kikei ningen, 1969), tratto da un racconto di Edogawa Ranpo. Il film illustra efficamente il discorso dell’autore, fatto di antieroi reietti e di un eros oltraggioso, popolato spesso da mostri, che mette in luce il desiderio di Ishii di mostrare il lato oscuro e nascosto della cultura nipponica.
Arrivando ai giorni nostri, e lasciando (volutamente) da parte i grandi nomi come Shinya Tsukamoto e Takashi Miike, che hanno elevato ai massimi livelli la tematica della violenza esplicita, rendendola discorso ampio e spesso metaforico sulla Carne (inutile ricordare Tetsuo e la sua importanza nel cinema contemporaneo), si può notare come la linea di fondo tracciata fin dagli anni ’60 osservi una sostanziale continuità, divenendo sempre più incisiva e provocatoria. Il cinema di Takashi Ishii, ad esempio, mette in evidenza una visione del Femminile in quanto mero oggetto di violenza, come se l’unica modalità di approccio verso una donna fosse l’abuso: dalla regia del quinto capitolo della saga Angel guts (Tenshi no harawata), ossia Angel Guts: red dizziness (Tenshi no harawata: akai memai, 1988), in cui il filo conduttore è lo stupro, fino a Freeze Me (2000), lettura orientale del rape and revenge. Le parole dello stesso Ishii possono spiegare, in modo efficace, questo tipo di approccio filmico, in cui la figura femminile si riduce a un tòpos praticamente identico in ogni pellicola (le protagoniste portano quasi sempre il nome di Nami): “Mi sono sempre chiesto che specie siano le donne […] non riesco a capire nemmeno una singola donna, per cui ho pensato che fosse inutile creare ogni volta una protagonista differente. E così ho deciso di disegnare sempre la stessa, ancora e ancora. Ma non avrei mai potuto comprenderla: l’unica cosa che potevo fare era disegnarla”.
Si mostra un vero e proprio esperimento sulla sopportazione del dolore, che alla fine si dirige anche verso chi guarda, tramutandolo in cavia, mettendo alla prova il suo limite di tolleranza a immagini e situazioni spesso insostenibili. Il successo, sotterraneo fino a un certo punto, di video come questi, privi di qualsiasi filo narrativo, meri assemblaggi di scene di umiliazioni e abusi, è stato inevitabilmente oggetto di discussioni, ma è solo uno dei tanti tasselli di un fenomeno che va ben oltre i Guinea pigs: in questo tipo di produzioni non si racconta nulla, la trama diventa inutile dunque anche la definizione di “cinema” può essere inadeguata. La consapevolezza di guardare qualcosa di non reale è il confine rassicurante ma anche labile, perché talvolta proprio il dubbio è il fattore di fascinazione; tanto si è già detto e si continuerà a dire, dal discorso sull’assuefazione che spinge ad andare oltre, a volere sempre di più, fino a dissertazioni più o meno erudite sul voyeurismo insito in ognuno di noi. Come è già stato osservato in più sedi, è forse di maggior interesse notare come e perché l’attrazione e la diffusione di una certa tipologia di prodotti filmici abbia avuto luogo in un determinato periodo storico, ma in contesti sociali anche molto diversi tra loro; è un filo rosso, un sostrato di inconscio collettivo che emerge in modo più prepotente in periodi precisi, sia come conseguenza che come reazione logica e naturale. Non è da sottovalutare la vecchia legge della domanda e dell’offerta, anzi, in questo caso dell’offerta e della domanda: può essere utile chiedersi se oggi come oggi una fetta di pubblico fruisca di determinate pellicole semplicemente perché sono disponibili e alla portata di tutti. Il particolare momento storico in cui ci si ritrova, con il crollo di ideologie e certezze e una crisi che da economica diventa individuale, può portare alla ricerca dell’oltraggioso, del brutto piuttosto che della bellezza, di un qualcosa che sia simile al mondo reale. Dal punto di vista sociale, il ritorno di un moralismo spesso becero e inquisitorio può essere input propulsivo verso quelle che possono essere viste, in un’ottima tutto sommato ottimistica, come trasgressioni prive di conseguenze. E’ comunque assai difficile accingersi a capire i motivi che portano un gran numero di persone a visionare e acquistare (quindi, vedere più volte) film come questi tentando di mantenere un distacco, evitando di dare giudizi di ordine non morale bensì etico: la curiosità verso un Guinea pig o simili può essere comprensibile, diventa ben più arduo condividere l’entusiasmo di fronte a immagini del genere e alla loro visione reiterata.
Chiara Pani
Nella prossima puntata: Video nasties!