Le donne che hanno fatto la storia in silenzio

Da Bambolediavole @BamboleDiavole

Vorrei raccontare e condividere una storia di famiglia: la mia.

Voglio raccontare questa storia in breve, anche se è una storia molto più lunga e complessa di queste due paginette, per spiegare un po’ meglio chi sono io, cosa penso e perché, ma soprattutto perché si parla sempre di donne nella storia, ma raramente si parla di donne che la storia l’hanno fatta nel loro piccolo, magari senza atti eclatanti, ma con l’esempio silenzioso delle loro vite.

Cominciamo da qui: dalla trisnonna di cui porto il nome: Giulia.

Giulia nacque introno al 1870 (purtroppo si è persa memoria della data precisa) in un paesino del nord Italia. È stata una donna decisamente fuori dai canoni: oltre alle consuete attività femminili in una famiglia di stampo contadino (orto e aia, numerosi figli e vecchi di casa), lavorava come operaia in filanda. La cosa più inconsueta di questa mia originale trisnonna, è che continuò a lavorare in filanda dopo il matrimonio e la conseguente nascita dei suoi figli. Sposò un uomo che per l’epoca era estroso quanto lei, Giuseppe, un contadino che lavorava per lunghi periodi nelle vigne della vicina Francia. Alla vigilia del matrimonio, il parroco gli domandò se aveva seminato figli in giro per i paesi in cui aveva lavorato e lui rispose: “i fioi (figli) solo con la Giulia”. E così fu. Il primo dei figli, Cesare, emigrò in America all’inizio degli anni ’20, seguito qualche anno dopo dalla penultima delle sorelle, Giuseppina, che lo raggiunse allo scopo di sposarne un amico mai incontrato prima. L’amico di suo fratello aveva una fidanzata in Italia, che aveva troppa paura del viaggio per raggiungerlo e così aveva chiesto al suo amico se una delle sue sorelle fosse interessata. La mia bisnonna era troppo giovane, la maggiore delle sorelle, alla quale il fratello si era rivolto, disse di no. Giuseppina si propose da sé: “Se ci sposiamo, vengo io.”. Questa mia coraggiosissima pro-prozia attraversò l’oceano Atlantico da sola, in nave, per sbarcare a New York e infine arrivare a Saint Louis. Suo fratello, che l’aspettava allo sbarco, la trovo emaciata e prossima allo svenimento: viaggiando da sola, non aveva quasi osato mangiare per paura di essere avvelenata e di finire in mano a qualche delinquente. Il coraggio di questa donna è il motivo per cui, ancora oggi, tutti noi viaggiamo spesso negli Stati Uniti e spesso riceviamo visite da cugini che ormai sono per me di ben 6° grado e che sono ormai sparsi un po’ dappertutto.

Francesca, chiamata da tutti Franca, nacque piccola piccola, debole e piuttosto malmessa. Sopravvisse tra difficoltà inimmaginabili e crebbe mantenendo una sua originalità: la nonna Franca non andava a messa e diceva che il Signore lo sapeva che lei non ci andava perché non aveva tempo, con tutto quello che aveva da fare! E portava la gonna sotto il ginocchio e non alle caviglie come tutte le altre donne della sua età, perché diceva che era cosa scomoda. Nel 1924, a 19 anni, sposò il mio bisnonno Mario. Un matrimonio fuori dall’ordinario, di nuovo: Mario non aveva un occhio, perso in un incidente da bambino, mentre uno dei suoi fratelli raccoglieva della paglia con un forcone. Lui la seguiva per strada, un giorno le chiese il permesso di parlarle, lei disse di sì e lui la chiese in moglie, chiedendole però di non prenderlo in giro: se l’occhio mancante fosse stato un problema, non tirarla per le lunghe, ma dirlo subito. Lei disse che un problema non era e si sposarono di lì a breve. Un anno dopo nasceva la loro prima figlia, Teresa, che morì dopo pochi giorni per una banale infezione che risparmiò sua madre, ma passando nel latte non risparmiò lei. Due anni dopo Carlo e poi di nuovo Teresa Giulia, mia nonna. Non fu volontà della mia bisnonna Franca quella di chiamare di nuovo la figlia Teresa, ma una delle tante imposizioni da lei subite nella famiglia di suo marito. Questo perché, come da tradizione, la mia bisnonna andò a vivere in casa del marito, insieme a tutta la sua famiglia. Anche la mia bisnonna Franca lavorava in filanda. E subiva l’ingiustizia di dover consegnare la sua busta paga al suocero, che amministrava da solo tutto il denaro che entrava in casa. E lo amministrava male: nel 1929, poco dopo la nascita di mia nonna, Franca decise di andare via di casa. Trovò una sistemazione e un lavoro altrove. Suo marito Mario non era d’accordo: andava a trovarla per vedere lei e i figli, ma quando era lì rifiutava di dividere con lei il letto, perché considerava il suo essere andata via l’equivalente di aver rotto le promesse matrimoniali. Alla fine lei cedette e rientrò in famiglia. Questo fatto è il motivo per cui a casa nostra si ripete spesso di fare attenzione quando si decide di andar via, perché andandosene si mostrano le spalle, ma tornando si mostra la faccia. Era una cosa che diceva lei. Purtroppo le previsioni funeste della mia lungimirante bisnonna si rivelarono corrette: nel giro di qualche anno la famiglia andò letteralmente a gambe all’aria: persero la casa e quel pochino di terra che avevano, disperdendosi nei paesi vicini. Anni dopo, quando lei era già morta, il mio bisnonno Mario la ricordava e ammetteva “io, nel ’29, ho sbagliato”.

Se non altro, questo errore, pagato così caro, diede alla mia bisnonna Franca la sponda per convincere suo marito: si trasferirono prima nel novarese, dove rimasero fino al 1946, quando si spostarono – sempre su spinta sua – a Milano.

Teresa Giulia, la mia nonna materna, nacque nel 1929, terza figlia alla quale seguirono altri 3 figli vivi, una delle quali, la mia prozia Giuditta, perse la vista a seguito di un’infezione agli occhi che non aveva ancora 6 anni, ragione per cui venne mandata in collegio a Torino. A 14 anni mia nonna entrò in filanda, come sua madre e sua nonna prima di lei. Voleva andare a scuola, avrebbe voluto frequentare l’avviamento professionale, ma le condizioni della famiglia, già provata dal mantenere cinque figli di cui una in collegio, non lo consentivano. Era il 1943, i giorni dopo l’8 settembre si ballava in piazza, credendo che la guerra fosse finalmente finita. Furono invece 3 anni durissimi. In questo frangente così tragico, un giovanotto di buona famiglia corteggiò mia nonna, all’epoca 16enne. Alla fine del 1945 le regalò una pelliccia di visone e la chiese in moglie ai suoi genitori. I miei bisnonni, nella loro originalità, dissero che certe domande si fanno alla diretta interessata. E la diretta interessata, per tutta risposta, gettò la pelliccia dalle finestra e caccio via in pretendente sgradito. Nel ’46 si trasferirono a Milano, alla ricerca di lavoro.

Lasciarono la casupola nel bosco per una appartamento di 45 metri quadri in Ripa Ticinese: i miei bisnonni dormivano nella camera da letto con il figlio più piccolo, il figlio maggiore dormiva nel soggiornino e le due sorelle in due brandine all’ingresso. Tutti si occuparono variamente: il mio bisnonno Mario ha posato i sampietrini di parecchie strade del centro milanese; mia nonna cambiò parecchi lavori, a seconda di deve riusciva a guadagnare meglio: da una fabbrica di biciclette fino al Bar Commercio in piazza Duomo, dove faceva la cassiera e lavorava fino a notte fonda, finalmente guadagnando ragionevolmente.

Nel 1951, incontrò mio nonno Francesco, Franco per tutti quelli che lo conoscevano.

Il nonno Franco nacque nel 1925 nel rivoltano. Sua madre Carolina era una donna originale (anche lei!). Terza di tre sorelle, figlia di una fattore piuttosto benestante, sposò nel 1910 il mio bisnonno Ferdinando. La loro prima figlia, Dolores, nacque in effetti nel 1909, un anno prima del matrimonio. Vicenda mai del tutto chiarita, ma nemmeno così difficile da immaginare. Ebbero cinque figli prima che iniziasse la guerra. Poi la guerra iniziò e il mio bisnonno si trovò sulla linea del Piave. Disertò quando gli ufficiali cominciarono a sparare addosso ai soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee. Non si sa bene come, ma riuscì a superare le file nemiche e camminò, camminò, camminò finché arrivò in un posto dove la guerra non c’era più. Non si sa di preciso dove, ma si pensa che finì in Albania. Era un macellaio di mestiere, trovò il modo di guadagnasi da vivere con il suo lavoro e riuscì a tornare a casa, ovviamente a piedi, all’alba del 1924. Nel frattempo, la mia bisnonna Carolina, che aveva 5 figli a cui dare da mangiare, era riuscita a rimettersi in piedi con le sue forze: faceva la cuoca, veniva chiamata a cucinare per i banchetti di nozze fin da ragazza. Durante l’assenza del marito aprì un’osteria vicina alla pesa pubblica. Era una donna così minuta che aveva bisogno di uno sgabellino davanti al fuoco per arrivare alle pentole. In quegli anni aveva provveduto lei a sé stessa e ai suoi figli. Il rientro del bisnonno Ferdinando segnò la fine dell’attività commerciale che lei aveva avviato e la nascita di altri due figli: mio nonno Franco nel ’25 e il mio prozio Emilio nel ’31. Il bisnonno Ferdinando morì di cirrosi epatica dopo aver bevuto tutta la cantina dell’osteria nel 1932, lasciando sua moglie Carolina con figli piccoli ancora in casa, il più piccolo di 10 mesi, nemmeno un soldino bucato e neanche più un lavoro attraverso il quale mantenersi, se non le sporadiche chiamate per preparare i banchetti di nozze che lei continuava a ricevere. Mio nonno Franco, che aveva allora 7 anni, andò a fare il garzone in un forno, dato che i suoi fratelli erano già avviati macellai e due delle sue sorelle maggiori erano già sposate e una era mancata a causa di una meningite che non aveva ancora 14 anni. Vivevano nella casa della famiglia del nonno, insieme ai fratelli e alla nonna Elisa; superarono la seconda guerra mondiale tra altre difficoltà inenarrabili. Mio nonno scampò il fronte in Germania scappando due volte dalla caserma prima di essere portato via sulla Tradotta. Passata la guerra e i tempi di fame nera, mio nonno Franco e altri ragazzi che facevano i fornai si erano riuniti in gruppo per lavorare a Milano: partivano dal paese, lavoravano tutta la notte a cottimo e poi tornavano a casa loro a dormire qualche ora e a lavorare anche lì. A Milano venivano pagati meglio e c’era lavoro che a casa mancava.

I mie nonni si incontrarono sul posto di lavoro. Era il natale del 1951, nella pasticceria Grioni. Lui faceva i panettoni e lei li incartava, un sodalizio lavorativo che si consolidò in tutta la loro vita insieme. Mio nonno chiese: “Se io faccio il pane, tu lo vendi?” e così fu. Si sposarono nel maggio del ’53. Andarono a vivere insieme alla nonna Carolina e al fratello minore di mio nonno. Presero in gestione un forno e cominciarono a lavorare. La bisnonna Carolina faceva da mangiare per tutti: figli e nuora, garzoni di bottega e lavoranti. Suocera e nuora si trovarono molto d’accordo: la nuora  guardava la suocera con ammirazione, la suocera guardava la nuora con simpatia e solidarietà; la nonna Carolina le raccontava le sue vicissitudini e le diceva che la famiglia di suo marito era una famiglia di gente originale, ma buona. Che se suo marito l’avesse incontrato un’altra volta, l’avrebbe sposato di nuovo perché al mondo aveva visto tanti uomini brutti – ma proprio brutti – e lui invece era bello. Non si riferiva all’aspetto fisico del mio indomito bisnonno, ma al suo buon cuore e alla sua generosità. E quando raccontava dell’osteria chiusa e della situazione in cui si era trovata durante la guerra prima e con la vedovanza poi, diceva a mia nonna che lei era nata in tempi diversi e che i tempi le avrebbero dato ragione.

Nel 1954 nacque mia madre Ferdinanda, nel ’57 mio zio Domenico (e a quel punto mia nonna si decise, cosa non comune, a fare la patente!) e nel ’64, in un frangente tutt’altro che fortunato, mio zio Daniele.

Nel 1964 la famiglia versava in pessime condizioni economiche. Mio nonno era un uomo generoso che amava aiutare gli altri, ma non era molto lungimirante nelle scelte lavorative. Ogni tanto decideva di cambiare attività e lo faceva, senza interpellare la moglie, che pure lavorava con lui.

Nei primi anni ’60 mia nonna tentò, senza successo, di prendere lei sola in gestione una latteria. Non ci riuscì perché il proprietario voleva la firma di suo marito. E così fu costretta a seguirlo in tutte le peregrinazioni lavorative che seguirono in quegli anni. 17 traslochi in tutto e tanta convivenza con i fratelli e le sorelle di lui. Nel 1963, a causa di alcune scelte sbagliate del nonno, si trovarono con i mobili di casa pignorati, dovettero lasciare i figli a casa di una delle sorelle di mia nonna e presero in gestione un negozio a Como. A settembre del ’64 mio zio Daniele è nato a Niguarda invece che alla Regina Elena perché alla Regina Elena non si fece in tempo ad arrivare, e prese l’unico nome non di famiglia perché nel trambusto di quel periodo nessuno aveva pensato a che nome mettergli: mia nonna voleva chiamarlo Francesco come il padre, ma era appena stata approvata la legge che vietava le omonimie all’interno della stessa famiglia. Così, nella fretta di trovare un altro nome, fu Daniele Francesco. Alla fine di quell’anno mia nonna aveva riscattato i suoi mobili e riportato la famiglia a vivere sotto lo stesso tetto. Premiò sé stessa di tutta quella fatica comprandosi un orologio Longines – diceva che se avesse aspettato di sentirsi dire “brava” da mio nonno avrebbe fatto in tempo a rivoltarsi il mondo – che andò perso qualche anno dopo.

Nel 1968 convinse mio nonno a trasferirsi in Brianza allo scopo finalmente, di comprare la licenza di un bar. A Milano i prezzi erano troppo alti, ma in provincia lei aveva messo da parte quello che occorreva per comprare. E così fu. Per la prima volta da che si era sposata riuscì a fare del denaro faticosamente messo da parte quello che diceva lei. Coronò i suoi progetti convincendo mio nonno, ormai alla fine degli anni ’80, a comprare i locali del bar e la casa in cui hanno vissuto al momento della pensione. E riuscì anche ad avere i suoi fondi neri, sotto forma di buoni postali a lunga scadenza, che hanno garantito a entrambi una vecchiaia serena e ricca di viaggi, prima di tutto dai cugini in America.

Ma torniamo alla mia di mamma, Ferdinanda. Nel 1968, a causa del trasferimento della famiglia in Brianza, finì iscritta al liceo classico a Monza. Il ’68 di mia madre prese forma in una protesta per non indossare più il grembiule nero a scuola, all’epoca ancora in auge persino al liceo. Mia madre fu una delle prime a lasciare appeso il grembiule fuori dalla sua classe e le altre seguirono. E grembiuli addio! A 18 anni decise di diplomarsi con un anno di anticipo e così fu. Al che si iscrisse all’Università a Milano. Mio nonno a quel punto la esortò a fare la patente e le comprò una 500 (che finì a sbattere contro un masso poco tempo dopo, a causa di una brioche mangiata mentre guidava). Nel 1973, a 19 anni, incontrò Felice, mio padre, a una riunione per l’acquedotti nel loro Comune.

I miei genitori si sono sposati civilmente nel 1976 a Milano; a Milano perché il loro comune si rifiutava di dar loro le informazioni necessarie per farlo lì, mentre a Milano, per quanto la cosa fosse ancora inusuale, chi si sposava in comune c’era. Mia madre aveva 22 anni e mio padre 28. Dopo il matrimonio lei si laureò in lettere classiche (segnando così due primati in famiglia: la prima laureata e la prima sposata civilmente) e lui riuscì finalmente a prendere un diploma di perito geometra al serale. Mia madre insegnava, mio padre lavorava in una grossa azienda dove avevano lavorato suo padre e uno dei suoi zii. Erano due militanti del PCI, ma mia madre perse ogni interesse nelle vicende locali quando nel 1980 la scartarono come assessore comunale perché aspettava me. Nel 1988 è nato mio fratello Mario.

Io mi chiamo Giulia, come la trisnonna con la quale ho cominciato a raccontare questa storia.

Sono stata la prima nella mia famiglia a non essere battezzata. Questo dettaglio mi costò un cartellino “io non faccio religione” appuntato al petto per tutte le elementari quando andavo a fare l’ora di alternativa (eravamo addirittura in 3, tutte bambine nate lo stesso anno, figlie di coppie di amici) e un punto alla maturità perché secondo la commissione esaminatrice il fatto di non aver frequentato l’ora di religione si traduceva in un percorso formativo che valeva un punto in meno.

Mi sono laureata nel 2004 e sposata civilmente (nel mio Comune!) nel 2006 con Antonio. Nel 2008 ci siamo trasferiti in Olanda a seguito di un cambio di lavoro di mio marito, mentre io ho continuato a lavorare in Italia, per un caso fortuito, facendo avanti e indietro. Nel 2009 è nato il nostro figlio e nel 2011 nostra figlia. Oggi ho una mia azienda..

Questa storia spero la continueranno i miei figli, tutti e due. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo.

Cosa voglio far capire di me raccontando tutta questa storia?

Innanzi tutto il perché per me lavorare è così importante: perché penso che l’emancipazione economica sia la condizione senza la quale non si va da nessuna parte.

Ma soprattutto, vorrei spiegare cosa vuol dire per me battersi per la parità.

Le regole del gioco non sono fatte per permettere alle donne di giocare ad armi pari: il campo è costruito a misura d’uomo e le regole, per ragioni storiche sulle quali è inutile recriminare, sono fatte dagli uomini per facilitare gli uomini, relegando le donne nel migliore dei casi all’opposizione, nel peggiore in una condizione di subalternità.

Le mie nonne e bisnonne non sono state delle subalterne, sono sempre state in minoranza e hanno fatto fortissima opposizione. Ma sono state – hanno dovuto essere – una minoranza creativa! Hanno fatto cose inimmaginabili per i tempi che hanno vissuto, per la scarsità di mezzi e per la difficoltà della loro condizione; e hanno pagato il prezzo del loro anticonformismo.

Lo hanno fatto perché le regole del gioco non si cambiano da sole, come ancora oggi insiste a dire qualcuno – “i tempi cambiano” dicono, come se cambiassero da soli, per inerzia – e non si possono nemmeno cambiare stando fuori dal gioco: si cambiano un po’ alla volta, un balzo dietro l’altro, e – ohimè – nemmeno con la garanzia di cambiare sempre in meglio.

Ma se io oggi godo della libertà di scegliere la vita che voglio, lo devo a queste donne coraggiose e volitive che hanno gettato le premesse perché io potessi farlo.

Non è finita qui: come ho detto, i cambiamenti procedono a balzi e non sempre sono balzi in avanti. Per i miei figli spero in un mondo migliore e mi adopero molto, nel mio piccolo, perché un mondo migliore sia per loro come è stato per me e perché siano consapevoli di quel mondo.

Ma questo voglio dire: si deve essere attivi, insieme, e attivi su un doppio fronte: la massa e il tempo. Più alto è il numero di persone consapevoli della condizione nella quale viviamo e del perché viviamo così, più rapidamente i cambiamenti diventano patrimonio comune; minore è la massa, maggiore è il tempo che occorre perchè i cambiamenti avvengano; e di nuovo sul fronte del tempo perché agli equilibri che si trovano non si deve affezionarsi troppo, sforzandosi di migliorare in modo continuo, accettando le sfide che ci si parano dinnanzi.