Articolo di Giuseppe Bedeschi pubblicato sul Corriere della Sera il 30 ottobre 2012
La grave crisi che ha investito gli
Stati Uniti e l’Europa ha sollecitato gli economisti a riflettere sui meccanismi dello sviluppo economico quale si è realizzato negli ultimi decenni, a rivedere convincimenti che sembravano ormai assodati, a rimettere in discussione teoremi che apparivano acquisiti una volta per tutte. Questo ripensamento ha luogo sia nello schieramento di centrosinistra che in quello di centrodestra. Ma direi che a sinistra la ricerca e il dibattito mostrano un impegno e una intensità maggiori. Una interessantissima testimonianza di ciò è il saggio di due economisti, Pietro Reichlin e Aldo Rustichini, Pensare la sinistra. Tra equità e libertà (ed. Laterza), che essi hanno sottoposto a un buon numero di personalità (economisti, sociologi, giuristi, politologi).
Secondo un pensiero molto diffuso a sinistra, essi dicono, la crisi che l’Italia e altri Paesi attraversano è il risultato della speculazione, della globalizzazione finanziaria e di un mercato libero da ogni vincolo. Essendo queste le cause, i rimedi sarebbero la crescita della spesa pubblica e una maggiore presenza dello Stato nell’economia. Ma, dicono gli autori, nel caso dell’Italia gridare contro la speculazione e la finanza globale significa schivare questioni reali e parlare d’altro. «I nostri problemi non nascono con la crisi del 2008, ma sono stati prodotti in un arco di tempo molto più ampio. Un trentennio in cui le scelte pubbliche hanno sacrificato la crescita economica e l’equità intergenerazionale, provocato una lievitazione incontrastata della pressione fiscale e prodotto una crisi del patto sociale».
Ci piacerebbe, incalzano gli autori, che la sinistra riconoscesse queste premesse e tornasse a discutere come migliorare le politiche e le istituzioni pubbliche, in nome della giustizia sociale sì, ma anche dell’efficienza. Ma per fare ciò la sinistra dovrebbe assumere «un volto moderno che, noi crediamo, non è ancora riuscita ad avere»; dovrebbe «trovare il modo di parlare alle nuove generazioni e all’insieme della società presentandosi come agente di cambiamento e non di conservazione». In particolare, la sinistra dovrebbe affrontare di petto alcuni nodi di grande rilevanza. C’è in primo luogo l’enorme problema del lavoro. Qui bisogna cercare di eliminare il dualismo del nostro mercato del lavoro e fare in modo che i giovani (oltre che le donne e gli immigrati) abbiano un trattamento migliore, cioè salari più elevati e più contratti a tempo indeterminato. Ma questo risultato può essere ottenuto solo riducendo i costi di licenziamento e allineando i salari alla produttività. La recente riforma del mercato del lavoro in tema di licenziamenti, varata dal governo Monti, è solo un primo tentativo in questa direzione. Ma è evidente, dicono gli autori, che bisogna fare di più (e rinviano al disegno di legge del senatore Ichino).
Un altro fronte sul quale la sinistra dovrebbe realizzare un ripensamento radicale è quello del nostro Mezzogiorno. «Ha senso, ad esempio, che le organizzazioni sindacali nazionali si sforzino di imporre condizioni contrattuali uniformi su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dalle condizioni economiche regionali, come la produttività, le infrastrutture e il costo della vita?» No, non ha senso. Del resto la contrattazione collettiva nazionale ha perso terreno rispetto alla contrattazione a livello aziendale quasi ovunque, anche nei Paesi a tradizione socialdemocratica, come la Germania e la Svezia.
Un altro grande problema da ripensare è quello dell’istruzione. Si sente spesso affermare che l’istruzione deve essere gratuita per consentire anche ai figli dei poveri di andare a scuola o all’Università. Ma l’obiettivo dell’equità può essere raggiunto in tanti modi diversi, e, probabilmente, lo strumento della scuola gratuita per tutti non è quello più efficace. Nel caso della nostra istruzione universitaria, con tasse uguali per tutti facciamo un grande regalo alle famiglie benestanti, e mettiamo in difficoltà le famiglie povere (fino a escluderle completamente dall’educazione terziaria). Sarebbe molto più equo aumentare il costo d’iscrizione all’Università e, nello stesso tempo, creare un ampio sistema di borse di studio, di «prestiti d’onore» ecc. per gli studenti economicamente svantaggiati.
Queste alcune delle argomentazioni di Reichlin e Rustichini. Come hanno reagito i loro interlocutori? Alcuni con vivo interesse (Michele Salvati, Claudia Mancina ecc.), altri assai negativamente. Così Salvatore Biasco dichiara che la discussione avviata dai due economisti, è «del tutto estranea alla sinistra»; Stefano Fassina rifiuta con forza l’idea che l’unica ideologia possibile per una sinistra dinamica e innovativa sia quella liberista; Piero Bevilacqua afferma che la critica di Reichlin e Rustichini alla sinistra «è un distillato ideologico del neoliberismo», e come tale da respingere fermamente. Anche in questo confronto appare evidente che nella cultura della sinistra ci sono (nettamente distinte, anzi contrapposte) due anime.