Le enigmatiche esperienze di quasi-morte: potrebbe la morte essere solo un’illusione?

Creato il 19 maggio 2014 da Dariosumer
Perchè viviamo? E ancor di più, perchè moriamo? Ogni essere umano, di ogni tempo e di ogni luogo, percepisce la morte come l'ultimo predatore a cui far fronte, l'inesorabile varco che attende ogni uomo di qualsiasi condizione sociale, qualsiasi latitudine e di qualsiasi credo filosofico o religioso. E ognuno di noi, nella parte più recondita del proprio essere, si chiede se la morte è l'esperienza definitiva con la quale veniamo consegnati al nulla assoluto, oppure se si tratti solo di un passaggio verso una nuova condizione esistenziale.

Tutte le culture umane che si sono succedute nella storia, fin dalla loro comparsa, hanno considerato la morte come il passaggio verso un’oltrevita.
Le culture preistoriche la pensavano come un ricongiungimento con i propri antenati.
Le culture antiche più evolute, come quella sumera, egizie e greca, credevano che la morte fosse l’inizio di un viaggio che portasse il defunto in un luogo fisico, nel quale cominciare il nuovo stato di vita.
Bisognerà attendere le religioni orientali, come l’induismo e il buddismo per assistere ad una concezione più spirituale della vita oltre la morte, fino a quando il cristianesimo parlerà addirittura di “risurrezione dei corpi”.
Forse l’unica cultura ad aver smarrito la domanda fondamentale sulla morte, e quindi sulla vita, è proprio quella contemporanea. Intriso di materialismo scettico, generato da una parziale interpretazione della rivoluzione scientifica e dell’illuminismo, l’uomo del nostro tempo non pensa più alla morte, e se ci pensa, tende a considerarla come il definitivo disfacimento dell’esperienza esistenziale.
Con la perdita del significato della morte, paradossalmente assistiamo ad una perdita del senso della vita. Eppure, potrebbe essere proprio la scienza a gettare nuova luce sul mistero della morte, a partite dai più recenti studi sulle esperienze di premorte e della fisica quantistica.
La “quasi-morte”
L’esperienza di premorte è uno degli eventi più enigmatici che possa capitare nella vita di una persona. I pazienti che hanno vissuto questa esperienza la descrivono come una sensazione di pace e l’inizio di un viaggio verso una fonte di luce intensa, spesso accompagnata dall’incontro con alcuni familiari defunti che raccomandano alla persona il ritorno alla vita terrena, per completare il proprio ciclo esistenziale.
Incuriositi da questi racconti, diversi scienziati hanno cominciato a compiere delle ricerche sul fenomeno, cercando di capire quale possa esserne l’origine. Ciò che più stupisce è la somiglianza delle visioni raccontante dai pazienti in stato di premorte: a prescindere dall’età, dalla provenienza e dalla culture, tutti raccontano grosso modo la stessa visione.
Tra gli studi più interessanti sull’argomento ci sono quelli cella dottoressa Laura Wittman, ricercatrice presso l’Università di Stanford, la quale ha analizzato tutta la letteratura prodotta a partire dal 1880 sulle esperienze di premorte, fino a giungere alle sceneggiature di film contemporanei come Brainstorm (1983) e Linea Mortale (1990), e alle opere di fantascienza di Bernard Werber, come Les Thanatonautes (1994) e Passage (2001) di Connie Willis.
Comparando i dati ottenuti dalla letteratura con quelli della scienza, la Wittman ha individuato una sostanziale somiglianza con i racconti di quasi-morte dei romanzi con quelli descritti dai pazienti. La ricercatrice ne ha tratto alcune conclusioni:
“La codificazione letteraria di tali esperienze, ci permette di guardare i racconti di quasi-morte nel contesto dell’evoluzione della ricerca scientifica su questo argomento”, spiega la Wittman. “Nel corso dei decenni, le narrazioni di quasi-morte sono state inserite in decine di romanzi e film, quasi a voler combattere la crescente invisibilità della morte nella nostra cultura, dove la morte è diventata un affare essenzialmente privato, spesso consumato in una terribile solitudine”.
Laura Wittman, laureata in lingua italiana e francese e titolare della cattedra in Studi Italiani, prima di dedicarsi all’esperienza di quasi-morte, si è dedicata allo studio della storia biblica della risurrezione di Lazzaro trattata da alcuni autori del 19° e 20° secolo.
Nel racconto biblico, Lazzaro è un uomo che tramite l’intervento di Gesù ritorna in vita, senza dire una parola su quanto vissuto. Wittman ha scoperto che il silenzio di Lazzaro ha affascinato e perplesso numerosi scrittori europei.
Nelle opere letterarie di D.H. Lawrence, Luigi Pirandello, Graham Greene, Andrè Malraux e Eugene O’Neil, gli autori hanno riesaminato la vicenda di Lazzaro, facendone diventare l’emblema degli studi sulle esperienze di pre-morte.
“Lazzaro esprime in modo univoco le ansie moderne sulla morte e il morire. Si avverte il desiderio di dare un senso alla morte, facendola diventare un viaggio di trasformazione piuttosto che un minaccioso varco verso il nulla”, continua la Wittman.
Approfondendo la questione, la ricercatrice si è accorta che l’interesse letterario per la storia di Lazzaro è coincisa con una crescita dell’interesse scientifico in materia, quando alla fine del 1880 i medici hanno cominciato a raccogliere le testimonianze di visioni e di viaggi dai loro pazienti. “Circa un secolo dopo, i neuroscienziati hanno cominciato a interessarsi al fenomeno, aprendogli una finestra sul funzionamento del cervello”.
Qualche tempo fa ci fu l’esperienza vissuta dal dottor Eben Alexander, un neurochirurgo di Harvard ricoverato nel 2008 per un attacco di meningite.
Entrato in stato vegetativo, al suo risveglio ricordava di un viaggio in una “dimensione più alta”. Quella di Alexander è un’esperienza che ha modificato profondamente una radicata visione scientifica della coscienza umana. “Come neurochirurgo, non credevo alle Nde (Near Death Experience)”, dichiarò lo scienziato su Newsweek, “avendo sempre preferito le ipotesi scientifiche”.
Il dottore specificò anche di non avere credenze religiose e di non credere nella vita eterna. Ma poi ha sperimentato “qualcosa di così profondo”, da fargli riconsiderare le esperienze NDE in chiave scientifica.
“La convergenza tra racconti letterari, sociologia e ricerca scientifica, in realtà ci dimostra ancora una volta che le supposte barriere tra discipline umanistiche e scientifiche sono determinate più dalla paura che dalla mancanza di interesse nei reciproci campi”, continua la Wittman.
La ricercatrice spera che il suo lavoro possa promuovere una maggiore collaborazione tra discipline umanistiche e medicina, in particolare per quanto riguarda la cura dei malati terminali, mettendo in campo una partnership naturale dei due campi.
“Penso che scienziati e umanisti siano interessati agli stessi problemi: perchè il mondo è così come lo vediamo, qual’è la nostra relazione interpersonale e con il pianeta, che cosa è la vita e se c’è un’anima”, conclude la ricercatrice.

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