Gli psicoterapeuti apprendono tante cose sui libri ma ne imparano molte altre (e forse anche di più) nel corso della loro pratica clinica.
Una delle cose che sto imparando nel corso del tempo è il bisogno dei pazienti di conoscere la propria diagnosi, sapere quale nome dare al proprio problema.
Non che non me ne fossi accorta prima: semplicemente mi trinceravo dietro la – corretta- mancanza di elementi per rispondere a questa domanda. Come da prassi, a seconda della situazione, davo i miei rimandi e con il trascorrere del tempo cercavo di rispondere in via indiretta attraverso la formulazione di ipotesi e del relativo piano di lavoro.
A volte ho affrontato casi in cui era lampante che la persona si fosse erroneamente convinta di avere un certo tipo di problema, magari a causa di avventati suggerimenti esterni o di frettolose ricerche sul web. Paradossalmente è stato più facile rispondere, anche prendendo in esame la sintomatologia tipica del problema riportato. Ciò non toglieva che vi fosse comunque un qualche disagio al quale dovevamo trovare un altro nome.
Credo sia esperienza abbastanza comune chiedere “mi dica dottore, allora che cos’ho?” quando ci si reca presso uno specialista. A seconda del contesto e della gravità dei casi, la domanda sarà carica di timori e aspettative.
Tutto ciò che è “-psi” ha in sè un alone di intangibilità: se da una lastra possiamo intuire la frattura di un osso, quando andiamo dallo psicologo siamo molto più disorientati, ancor più profani forse.
Come gestire quindi questa umana esigenza, senza correre il rischio di dare etichette?
Un clima accogliente ed empatico è un buon punto di partenza: è il pane quotidiano del mio lavoro ma è importante accertarmi che chi è seduto di fronte a me lo percepisca. Che sia un elenco di sintomi su un quaderno, la pagina del DSM scaricata da internet o un flusso di pensieri ad alta voce si tratta di parole che meritano dignità. Non siamo a scuola e non è il mio compito formulare un giudizio e dare un voto.
Cerco di capire cosa fa ritenere alla persona di avere questo o quel disturbo.
Se è possibile cerco già di dire qualcosa, altrimenti ammetto in assoluta tranquillità di non avere gli elementi per pronunciarmi: non è colpa di nessuno, abbiamo bisogno di tempo. Chi si rivolge allo psicologo si ritrova di fronte a un estraneo, in un ambiente che non conosce a parlare di situazioni che arrecano disagio, malessere, sofferenza. Rassicuro chi teme di parlar troppo e chi teme di parlare troppo poco. Il mio ruolo è rendere questo primo incontro un momento di positività, o perlomeno di non-negatività.
Non potrei mai lavorare senza il mio sistema diagnostico di riferimento: è la mia mappa. Come diceva Bateson, “la mappa non è il territorio“! Questo significa che la diagnosi non è un processo in cui si cercano prove a favore della propria ipotesi, anzi: si lavora cercando di falsificarla, trovando tutti quegli elementi che potrebbero disconfermarla. Meglio ricredersi e tornare sui propri passi piuttosto che convincersi di un qualcosa di errato e fare ancora peggio!
Per questo motivo, la diagnosi non è un’etichetta e la persona non è la sua diagnosi. Ai pazienti dico spesso che “le etichette stanno bene solo sui barattoli”. Possiamo dare insieme un nome al loro malessere (qualcuno trova utile disegnarlo, come Toby Allen), ma non possiamo confinare la complessità e l’unicità di una persona con una definizione da manuale.