Come diceva il buon Anton Ego, critico culinario dello straordinario Ratatuille, ci sono più anima e cuore in qualsiasi opera del fare, piuttosto che in un milione di parole spese da chi quelle opere le commenta. Le formiche della città morta, film indipendente diretto da Simone Bartolini e prodotto da Nero Film, riesce in almeno due cose impossibili: la prima è quella di riuscire a fare cinema in maniera indipendente, con i suoi limiti certo, ma con tanto tantissimo cuore, in un paese che penalizza qualsiasi tentativo di creare qualcosa di personale fuori dai soliti canoni di accettabile “paraculaggine”; la seconda invece è determinata dal significato, destinato a raccontare una realtà cruda, quasi documentaristica e certamente necessaria, per capire ed interpretare il nostro tempo e i nostri giovani. Lasciando da parte la Roma sognante e splendida vista per esempio ne La grande bellezza, il regista si concentra sui lati oscuri della capitale, mai così ostile, matrigna e aliena, descrivendoci la parabola lunga un giorno, della vita di un piccolo aspirante rapper tossico e spacciatore, che tra piccoli espedienti, amori passeggeri, passati, futuri e sognati, tenta di sopravvivere in un mondo senza pietà. Pur con alcuni dei difetti tipici delle opere prime, Le formiche della città morta ha un’urgenza di raccontare rara, che riesce nel difficile intento di trovare un proprio stie, una voce fresca e personale. Su tutto poi, restano nel cuore le due sequenze in cui il protagonista tenta un approccio con il padre, spaccato commovente di un’Italia familiare e proletaria, lavoratrice e disperata, che tocca fin nel profondo, arrivando a sfiorare, anche solo per un attimo, per il tempo di un’inquadratura, le vette del sublime.