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Otto sconosciuti stabiliscono un’alleanza per compiere una rapina, che poco dopo sembra fallire…
In due parole. Simbolo del nuovo cinema pulp, è una sorta poliziesco a tinte vagamente gore, e si basa sullo schema del noir di “Rapina a mano armata” di Kubrick. Riprende per molti versi ritmo, stilemi e caratteristiche del poliziesco anni 70 (italiano e non solo: Fulci, Lenzi e via dicendo). Per molti si tratta del miglior Tarantino di sempre.
Abbozzato in meno di un mese, girato in 33 giorni con una 16mm e con un budget di 30,000 dollari; molto noto nell’immaginario collettivo per il vestiario caratteristico dei suoi protagonisti, oltre che per via di una serie di singolari caratteristiche. Roba che farebbe saltare sulla sedia ogni appassionato di genere poliziesco: un body count di 17 persone, una trama incastonata alla perfezione, l’assenza totale di un protagonista femminile (analogia con i film di genere machisti anni 70, e forse non casuale con La cosa di Carpenter), la parola “fuck” ripetuta “solo” 272 volte. Amato incondizionatamente dai fan quanto tacciato di razzismo, violenza gratuita e politically uncorrect, si tratta dell’opera prima di Quentin Tarantino, che qui esalta gli stereotipi dei criminali “cinici & dalla parlata sbroccata” che sarà rielaborato, con mezzi ancora più consistenti, in Pulp fiction. Osannato a dismisura, dicevamo, sostanzialmente perchè reinventa un linguaggio e perchè vive letteralmente sulle spalle dei sei protagonisti: Mister Brown (Quentin Tarantino), Mister White (Harvey Keitel), Mister Blue (Edward Bunker), Mister Orange (Tim Roth), Mister Blonde (Michael Madsen) e Mister Pink (Steve Buscemi): tutti caratterizzati da una qualche debolezza o mania, ritratti in modo nitido e conciso fino a delineare un film che inchioda letteralmente alla poltrona. Per una volta possiamo conferire lo status cultistico senza alcun tentennamento, vista l’evidente padronanza dei mezzi del giovane Tarantino, la sua conoscenza delle situazioni cinematografiche nonchè l’innata capacità di esasperare la violenza visiva fino all’insopportabile. “Le iene“, al di là di un’estetica impeccabile, è incentrato sull’effettiva solidità dello script: l’infiltrato è perfettamente credibile, ed i momenti in cui i criminali diventano sospettosi creano una tensione palpabile, a tratti fanno sentire il fiato sul collo allo spettatore. D’altro canto “Reservoir dogs” si fa forza su scene crudeli molto ben dosate, anche quando eccessive sono sempre bilanciate da momenti che servono a far capire l’intreccio. Una violenza che non si fa certo pregare, quindi, e che costituirà il marchio di fabbrica del regista: la tortura del poliziotto effettuata da Michael Madsen, ad esempio, ispirata ad un noto film anni 70, pare sia stata talmente coinvolgente da provocare una sorta di crisi psicologica nell’attore (Michael Madsen) che interpretò il sadico. Le agonie dei personaggi, rappresentate in modo vivido, ravvicinato e realistico, riescono di fatto a reinventare un linguaggio, ricalcando fedelmente storie, tradimenti e doppio-giochismi tipici del cinema di genere. “Le iene“, icona del cinema pulp anni 90 – che ha in parte riabilitato un genere che si credeva morto e sepolto – possiede un ritmo già di suo piuttosto rapido, esaltato all’ennesima potenza da un montaggio non convenzionale che svela la storia in modo imprevedibile, e si diverte ad invertire le relazioni causa-effetto. Tutto questo contribuisce a renderne la visione molto accattivante, a patto ovviamente di apprezzare questo tipo di cinema che, in certi momenti, produce un effetto quasi alienante e vagamente “ipnotico” sul pubblico. Magistrale, a tal proposito, la sequenza di preparazione del poliziotto infiltrato, che contiene una sorta di lezione “tarantiniana” sul come rendere credibile la stesura di una storia: focalizzandone i dettagli, impadronendosi degli scenari in cui la si ambienta e, soprattutto, sapendo rispondere alle domande del “pubblico” in merito. Il modo in cui la storia inventata si intreccia con quella “reale” è una trovata cinematograficamente molto originale, di quelle che sarà difficile dimenticare, senza contare che culmina con una celebre citazione meta-cinematografica: “quel figlio di puttana assomiglia a La cosa“. Complessivamente un puro noir-orgasm per gli appassionati, come pochissimi ne sono stati realizzati nella storia.