Le illuminazioni di Nina Maroccolo posted by Fausta Genziana Le Piane

Da Parolesemplici

Nina Maroccolo

-Victor Hugo affermava che “E’ l’oceano sondato, resta l’anima da sondare”, ti sei definita “ESPLORATRICE”: quale dei due è più facile da conoscere, l’oceano o l’animo umano? Come dice il grande scrittore portoghese Eça de Queiroz, quanto più profondamente l’uomo sonda se stesso, tanto più si riconosce insondabile?

Secondo la dottrina buddhista mahayana, quando si parla di oceano ci si riferisce all’oceano del samsara: il ciclo delle esistenze. E quasi mai è possibile tornare alla consapevolezza cosciente di quali siano state quelle remote… Ma è anche vero che la nostra piccola genesi si racchiude in questo oceano che può tramutarsi in “esistenza illuminata”. La vastità dell’oceano ci spinge a considerarlo in senso figurato, ovvero abissale, profondissimo com’è il nostro inconscio; ma che esso contenga anche l’Anima, credo di sì.

Più esploriamo, più entriamo in contatto con realtà che si prefigurano oggetto di ricerca delle origini – tanto più l’insondabilità diviene meno aspra.

Per me Oceano e Anima sono entrambi oggetto di questo “andare”: pariteticamente.

-Finalmente con te quello che mancava – ma ormai per poco – in   letteratura: una genealogia al femminile. Il tuo libro è pieno di figure femminili di riferimento…

Ho sempre tenuto a raccontare la grande Storia e perfino il Mito ripercorso da parte femminile. Il fondamento di questa “genealogia” matrilineare è presente nell’opera teatrale di Eschilo, la trilogia “Orestea”. Meglio specificare che si tratta di quel passaggio dalla condizione di Erinne a quello di Eumenide. Questa trasformazione, evoluzione duale direi necessaria, attraversa interamente i personaggi femminili di Animamadre. Può accadere anche il contrario, e nella costruzione romanzesca è stato per me anche più interessante: le Eumenidi che si ritrovano ad essere persecutrici erinniche.

“In fondo, vi consolerebbe se fossi una creatura malevola. Oh, se consolerebbe! Farebbe risvegliare le vostre lacune d’ombra in soleggiate motivazioni”… intona quello che considero il personaggio più bello del romanzo, Carmela detta La donna di pece. Eumenide per eccellenza. Amore votato al sacrificio.

-Non sono totalmente d’accordo con Giuseppe Berto nella sua interpretazione della celebre frase di Flaubert “Madame Bovary sono io”. Il grande scrittore francese intende dire che Emma esprime la sua parte femminile. E si conosceva molto bene…ed è tanto vero quanto è vera Emma. Quale è il tuo maschile? Tuo padre? Il dottor Negro?

L’Anima è femminile, non ha forma né tempo. Ne assaporiamo la vastità.

Qui entra in gioco un altro fattore che è l’identità. Secondo Jung l’Io che si manifesta primariamente è quello corporeo: solo in un secondo momento – intorno all’età bambina dei quattro/cinque anni – si comincia a dire “Io” o “Me”; altrimenti dall’atto della nascita non vi sarebbe nessuna condizione dell’esistenza di un Io.

Quest’ultimo è come un edificio in continua costruzione: ma senza averne una fine.

In questo contesto considero Flaubert illuminante, quando si rispecchia in Emma parte femminile della sua Anima. Ma non tralascerei il discorso identitario…

La mia parte maschile è facilmente plausibile, e detiene la sua interezza in ciascun uomo che entra o esce dalla scena. Fausta, è dolorosa questa domanda!

Senza sottrarmi potrei dire che forse è mio padre: colui che è stato danneggiato, poi danneggerà a sua volta. Ma penso, e mi auguro, che il mio maschile sia il Dott. Negro… Lui accoglie aspetti positivi ed etici, si prende cura di chi soffre, accede ai malesseri altrui in modo delicato ma fermo, ha precise convinzioni: è colui che manifesta e opera il Bene.

-Quanto è importante per te il dubbio?

È la marcia. Il passo veloce. Camminare senza una meta precisa, sapendo che non arriverai mai perché in ogni passo puoi trovare semi di verità, la tua verità, e altri che ti costringeranno a ripensare se quella verità lo è davvero. È qui che accedo al profondo, che nulla rivela in forma indolore…

Scrivo in Animamadre: “Si è costretti ad oltrepassare il dubbio, l’incertezza, traendo dall’inconoscibile il reale spaventoso. La scrittura è degli irriconciliati”.

Il dubbio non dovrà mai diventare nevrosi.

-Ed il silenzio?

Certo che è importante! È una forma meditativa, un ristoro, sono lunghe pause per ritrovare un baricentro perduto. Dico perduto, perché la scrittura porta al facile funambolismo, non essendo un’attività proprio conciliativa ma di apertura ai varchi e talvolta agli abissi.

Silenzio è preghiera.

-Il tuo libro è ricco di metafore, simboli, archetipi. Vorrei soffermarmi su quella delle scarpe, “bene prezioso” (p. 58). Hermes è un dio calzato, poiché ha preso possesso legittimo della terra dove cammina: desideri prendere possesso della terra dove cammini? Simboleggia per te anche il viaggio? Le tue scarpe sono sfuse, spaiate: manca l’intesa, l’armonia con gli altri? La scarpa era per gli Antichi un segno di libertà: a Roma gli schiavi andavano a piedi nudi. Anche per te le scarpe rappresentano la libertà?

No, non credo di nutrire la necessità di possedere qualcosa, anche fosse la terra dove cammino. In me il concetto di “possesso” non esiste, ma quello di libertà sì. Le scarpe contengono, innanzitutto. E Freud dava una connotazione sessuale all’oggetto che contiene un altro oggetto, come nel corpo umano gli orifizi.

Con le scarpe spaiate tendo a sottolineare una sessualità incompleta, una sorta di armonia che viene a mancare fra due persone. Sicuramente tratteggia anche una difficoltà con gli altri, probabilmente di comunicazione.

Ce n’è fin troppa, oggi, di comunicazione: e l’eccesso porta a distanza le persone. Spesso si comunica anche male e le scarpe stanno strette, e non solo a me. Forse ne sono consapevole, questa è la mia fortuna. Eppure vorrei saper raggiungere l’altro da me: nel cammino, spesso, resto indietro…

-“La memoria è l’essenza delle cose”: è anche la cassaforte dove attingere nei momenti dolorosi della vita, come dice Almodovar?

Assolutamente sì. In ogni momento della vita, da quello doloroso a quelli lieto.

La scrittura, si sa, ben oltre Proust, propizia la ricerca, il rito del tempo perduto e poi ritrovato. Straordinaria cassaforte, e Almodovar la sa lunga… Il problema è un altro: che molte volte, i preziosi contenuti della memoria perdono valore, o stranamente ne acquistano.

La memoria – anche pubblica, collettiva – è uno dei valori che più dovrebbe essere difeso, perché ci aiuta nel presente in cui frammenti inconsapevoli del futuro germinano.

-Per usare il titolo di un celebre libro di Marie Cardinal, tu hai trovato “le parole per dirlo”. Le parole salvano e il tuo linguaggio è forte, simbolico: scarti sempre “la parola superflua”? E quale è la parola superflua? Il troppo? Che rivela “intime debolezze” (p. 25)?

Le parole salvano ma possono anche dannare. L’uso del linguaggio è una responsabilità da cui non si può prescindere. Sai perfettamente che incontri qualcuno che leggerà un tuo libro, e ricordarsi di questo “qualcuno” è un tramite per arrivare a dialogare intimamente con lui… La parola non potrà mai essere casuale, e niente deve spingere uno scrittore ad essere compiacente di (e con) se stesso. L’orgiastica grammatica della rivelazione può far emergere un sentimento di “potenza” che non va ascoltata; immediatamente trattenuta – si distrugge.

Diventa pericoloso, e il troppo dire – l’uso smodato, irresponsabile o addirittura propagandistico del linguaggio (guardiamo alle dittature ideologiche del Novecento) – alimenta una fragilità travestita da vuoto. Il vuoto della Volontà di Potenza.

Questa è l’“intima debolezza”.

-Parliamo ancora dello stile: lo trovo innanzitutto un libro ben scritto, cosa molto rara di questi tempi, ma non solo. La coscienza e l’irrazionale si sovrappongono.

Come nella vita. Siamo figli di una causa e del suo effetto: può anche capitare che l’effetto si manifesti prima della causa. Così la diade Coscienza-Non Coscienza: confini molto labili, per ciò affascinanti. Amo profondamente indagare sia l’una che l’altra: la scrittura permette di spaziare, è un’arte che necessita di disciplina, dunque la libertà va saputa gestire.

I primordi che non conosciamo dell’inconscio ci portano a un livello di recezione tanto più intensa quanto più lo sai ascoltare. Non esiste un metodo (l’ipnosi?), ma l’ascolto (recedere alle proprie origini è sempre una grande sfida).

Credo che il segreto sia saper ascoltare segni e incognite. Porsi risposte ancor prima delle domande.

Lo stile è una conquista.

-Che ruolo ha la tua competenza musicale nell’ordito dello scritto: “sillaba sonora”?

Sono cresciuta con la Musica. Canto.

Questi sono aspetti determinanti sia della mia formazione che della mia struttura creativa. Scrivere è musica. Ogni mio elaborato è frutto di una filigrana musicale, la chiamo “partitura”; e nella sua composizione divento maniacale.

Si deve sentire il suono, i suoni, i flauti, le cavità baritonali, le note soprane, le pause: si tratta di un pentagramma riproducibile dell’opera stessa.

Animamadre non è soltanto un libro da leggere, ma – soprattutto – da ascoltare.

Un giorno lo porterò davvero su partitura “ufficiale”.

-Per te “la letteratura non è gioco, non è un soprammobile, non è un paravento” (p. 173): l’arte è un “nido”? Una “perdita”? Una fuga (Henri Laborit)? Questo insieme di definizioni ed altre ancora?

Tutto insieme. Vorrei che non fosse una fuga, ma la base per affrontare i problemi che ci attanagliano. Nido neanche: è comodo e caldo, poi bisogna pur svolare.

La letteratura è la sutura di una ferita, la ricomposizione di una perdita. Salvezza e Redenzione. Laiche, sia ben chiaro.

La fede è mistero privato.

-Che cosa devono fare “le femmine per non avere un destino triste” (p. 26)?

 Bella domanda! Le protagoniste di Animamadre sono quasi tutte tristi.

C’è una tristezza che insorge come impriting ereditario, e karmikamente non si può far nulla. Studiando su me stessa e dialogando con psicologi, emerge il dato dell’infelicità che è il ricamo sul mio pollice identitario. L’insufficienza degli affetti, dell’essere amata, sentire costantemente l’abbandono… ci provo da tempo a superare, a far saltare in aria questi fossili: l’unica cosa che funzioni davvero è amare gli altri, dedicarsi agli affetti, non lasciare mai solo qualcuno. Un’energia benevola: quella virtù cardinale che nel buddhismo del Grande Veicolo viene chiamata Compassione.

In senso meno personale, credo che la donna debba recuperare la sua natura femminile, femminea, senza troppo innalzare barricate neo-femministe o creando antagonismi con il maschio e – soprattutto – non scimmiottandolo.

Non sono una conservatrice, la donna deve essere rispettata: nei diritti civili, lontana dagli abusi, non preda di stupri, violenze e delitti efferati. È ovvio che emerga una forza difensiva, e la creatura femminile va difesa e riportata all’attesa del Nuovo. Un destino nuovo, più giusto, più libero.

-Hai incontrato Alejandro Jodoroswsky (importanza della genealogia), un personaggio eclettico che ha attinto a svariate culture creando un modo personalissimo di affrontare le proprie paure. C’è un atto magico tutto tuo che ti ha aiutato?

In ogni istante e istinto dell’arte c’è un atto magico. È il sogno, l’avvenire alchemico.

Un personale “Cabaret Mistique” in solitaria.

-La tua scrittura è rimbaldiana e non a caso citi Rimbaud: “La tua quartina (…) s’immerge in boschi di sangue / e ne risale” (p. 206): nel corso della tua “stagione all’inferno”, ti sei fatta veggente. Come sei risalita?

Forse riaddentrandomi nel mito, risalendo l’archetipo, la psicologia, la cultura poetica che indaga l’altrove al quale non mi sottraggo… Non dico di inseguire la veggenza del “fanciullo dalle suole di vento”, ma sicuramente mi propongo un approdo e insieme un’implosione delle nascoste immagini interiori.

Sono considerazioni, le tue, che accompagnano la mia fede in visioni nuove, incrementando quella pura forza meditativa che dall’Io si accende in fiamma inestinguibile del Noi. Da qui l’origine di ogni vero approccio alla scrittura.

Senza l’altro difficilmente esisterebbe una felice collocazione dell’Io nel mondo. La sua compiutezza accade in “insieme”.

Grazie, cara Nina, per averci permesso di entrare nel tuo mondo e di averci dato la possibilità di conoscerti un po’ meglio.

Fausta Genziana Le Piane

LE DATE DI UNA VITA

   Nina Maroccolo, Massa 1966. Cresciuta in Sardegna da bambina, approdata a Firenze nel ‘75 – dove ha studiato Arte e Musica – vive e lavora a Roma dal 2004. Scrittrice, cantante e performer, autrice di testi teatrali, interprete, artista visiva. Lavora a recital, perfomances, improvvisazioni, azioni sceniche, teatralizzazione di testi. Sono i “Canti per voce nuda”. È membro della Factory AL-KEMI lab; redattrice dei blog collettivi “NEOBAR”.

   Pubblicazioni

   IL CARRO DI SONAGLI (City Lights Italia 1999); ANNELIES MARIE FRANK (Empirìa 2004, 2a ed. 2009), con una lettera di Alda Merini; FIRENZE-ROMA (Pulcinoelefante 2004), a cura di Eric Toccaceli; DOCUMENTO 976 - Il processo a Adolf Eichmann – (testo drammaturgico tratto dalla silloge di teatro contemporaneo “Qui e Ora”, Nuova Cultura, Roma 2008), con prefazione di Fabio Pierangeli e Roberto Mosena; MALESTREMO  (Le Reti di Dedalus 2008); ILLACRIMATA (Tracce 2011), con saggio introduttivo di Paolo Lagazzi; UN ANGELO DI FARINA – Cinque liriche e una ballata – (Lepisma 2011); S’IMPALPITI MATERIA – Omaggio a Giacomo Manzù – libro-oggetto d’arte a tiratura limitata (Edizioni d’Arte Musidora 2011). Contributi letterari del gruppo sinestetico “perIncantamento”. Introduzione di Marcella Cossu, Direttrice della Raccolta Manzù di Ardea, e saggio critico di Plinio Perilli; ANIMAMADRE (Tracce 2012), romanzo: prefazione di Fabio Pierangeli, postfazione di Ubaldo Giacomucci.

In corso di pubblicazione MALESTREMO – Sedici viaggi nell’Altrove, introduzione di Marco Palladini, a concludere la Trilogia dal titolo I POSTERI DEL MODERNO (Illacrimata, Animamadre, Malestremo).

   È presente in numerose antologie. Ricordiamo la più recente : “L’evoluzione delle forme poetiche – La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012)” (Kairós 2013), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo; “La Fede” (EdiLet 2013), a cura di Marco Onofrio e Stefania Severi.

   Musica e Canto

   Numerosi i suoi concerti, le performances e i recital. Tra le sue pièces teatrali, interpretate e cantate, ricordiamo almeno la “Salomè” (da Oscar Wilde), “Annelies Marie Frank” (dal suo libro omonimo), e l’estemporanea “Partitura per ferro e terra” dedicata all’opera dello scultore Jaume Plensa. La sua attività musicale è inoltre inclusa in “I Love Rock ‘n’ Roll – Storia del rock italiano”, a cura di Raffaele Palumbo ed Ernesto De Pascale (Giunti 2009).

   “Nastro – Omaggio a Giacomo Manzù” (Salone del Libro, Auditorium DM, Torino 2012), cortometraggio per voci recitanti, elettronica, corto / videoarte. Regia di Istvàn Horkay, musica di Daniele Venturi. Testi poetici di Nina Maroccolo, Plinio Perilli e Faraòn Meteosès.


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