LE ILLUSIONI DEGLI ILLUSIONISTI ALESINA E GIAVAZZI, di Giuseppe Germinario

Creato il 15 febbraio 2013 da Conflittiestrategie

Alesina e Giavazzi, i gemelli dell’editoriale sul Corriere, hanno consacrato il loro impegno in Italia a una missione: allontanare lo Stato, l’intervento pubblico diretto, ma più in generale il dirigismo, dalle scelte di politica industriale. Per proseguire in pieno fervore nella loro crociata, devono trarre alimento continuamente dalle loro fonti primarie americane. Con il dogma del Mercato sempre e dovunque, ormai vacillante sotto i colpi della crisi e messo praticamente in dubbio dalle politiche adottate da vari governi nazionali, in particolare da quei paesi egemoni così solerti nel predicarlo nel giardino altrui, i nostri apologeti, un po’ a malincuore, sono costretti a scendere dalle sicurezze teologiche al cimento storico per riproporre comunque le solite ricette salvifiche. Un po’ come sta succedendo a un altro dogma che ha imperversato per oltre cinquant’anni senza ammettere dissensi e varianti: l’europeismo economicista e sovranazionale.

L’ultima crociata dei nostri è quindi indirizzata alle “troppe illusioni sull’innovazione”  http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_03/troppe-illusioni-su-innovazione-alberto-alesina-francesco-giavazzi_0b6216f4-6dd1-11e2-ad59-736471fe2e30.shtml ; una critica al dogma del dirigismo, in particolare statalistico, ma solo per riproporre, in termini falsamente relativizzati, la loro solita certezza altrettanto e più dogmatica.

Con la sicumera dei predicatori di fede i nostri pongono in termini derisori tre domande ai lettori: “Vi immaginate quattro funzionari dell’Iri in un garage che si inventano Apple? O un giovane impiegato dell’Iri che inventa Facebook? Affidereste allo Stato la scelta del tipo di robotica su cui puntare?”

A queste domande retoriche  i nostri oracoli offrono con la solita malcelata sufficienza la loro scontata risposta.

Infatti, “Nel Dopoguerra, fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, la politica industriale fu un elemento essenziale della nostra rinascita economica. L’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), fu l’attore centrale di quel periodo”. “Ma erano tempi molto diversi. Italia e Giappone erano agli inizi della loro esperienza industriale. Non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l’aveva inventata”. Il dirigismo impersonato dall’IRI sarebbe stato quindi possibile e tollerabile solo perché nel dopoguerra si è trattato di acquisire dagli americani tecnologie ormai mature ma necessarie al decollo industriale.

Poche righe più in là gli autori si lasciano sfuggire una affermazione non proprio insignificante.  L’IRI era, negli anni ’60, “parte di un sistema finanziario incentrato sulle banche, su relazioni stabili fra banchieri e imprenditori (si pensi al rapporto fra Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli), scarso avvicendamento dei manager (Vittorio Valletta guidò la Fiat per un ventennio) e un ampio intervento dello Stato nell’economia.” Si parla quindi di “sistema”, non più solo di impresa pubblica e di intervento statale. Su questo aspetto fondamentale, però, gli autori glissano elegantemente. L’IRI, così come l’AGIP (poi ENI) e successivamente l’ENEL proseguirono dopo il fascismo, svilupparono e, nel caso dell’ENEL, avviarono le loro attività soprattutto per un motivo: per l’incapacità e la mancanza di volontà di imprenditori privati, operanti nei settori di base, di sviluppare le produzioni necessarie a consentire la realizzazione di beni di consumo di massa su larga scala. I siderurgici privati, così, piuttosto che avviare le produzioni a ciclo continuo necessarie a fornire i laminati per la meccanica e la grande cantieristica, tentarono di indirizzare e limitare lo sviluppo industriale verso settori di nicchia; i produttori di energia idroelettrica rallentarono lo sviluppo della produzione termoelettrica necessaria ad estendere geograficamente e intensivamente le industrie e le infrastrutture del paese. Essi trovarono validi alleati nei settori industriali più tradizionali come il tessile il quale garantì il primo avvio dell’attività industriale, dal cessate il fuoco nel ’45, senza che i lauti profitti conseguiti dal temporaneo regime di quasi monopolio europeo dovuto alle distruzioni della corrispondente industria tedesca e francese fossero investiti nell’ammodernamento tecnologico ed organizzativo. Fu un sodalizio e una alleanza che cercò di ostacolare il più possibile l’adesione ai trattati comunitari ma che provocò, a sua volta, l’alleanza tra il settore industriale e finanziario pubblico da una parte e il sistema finanziario e industriale privato (Fiat, ect) più legati ai prodotti manifatturieri, meccanici e della cantieristica e i primi, nei prodotti industriali di base; tutti questi ultimi, sostenitori convinti dei processi comunitari nelle modalità complementari stabilite dalle gerarchie politiche del dopoguerra. Il successivo sviluppo dell’industria militare legato al rafforzamento della NATO, fu il fattore decisivo che permise il sopravvento degli uni sugli altri dopo anni di conflitti e scontri. Il trasferimento di tecnologia americana fu, quindi, un processo legato ai ritardi nello sviluppo industriale d’anteguerra e al protezionismo dei piccoli mercati nazionali europei, alla distruzione degli apparati industriali durante la guerra e alla totale dipendenza politica ed economica dei paesi sconfitti e ausiliari a prescindere dalle politiche dirigiste o meno perseguite dai vari paesi; l’Italia e il Giappone, d’altronde, non erano allora paesi agli “inizi della loro esperienza industriale”. Avviarono questi processi all’incirca nello stesso periodo di Stati Uniti e Germania ma con esiti diversi, perché diverse erano le formazioni sociali di questi paesi e il contesto geopolitico in cui operavano.

Se allarghiamo lo sguardo ad altri periodi storici e ad altri paesi, si vedrà facilmente che le politiche dirigiste innescarono  spesso e volentieri sviluppo tecnologico e innovazione in interi settori industriali; lo fu per la Germania di fine ‘800 che inventò interi settori industriali come quello chimico. Con dispiacere di Alesina, anche gli Stati Uniti conobbero grandi balzi economici e tecnologici nei momenti di centralizzazione delle decisioni e delle politiche legati alla preparazione, alla gestione delle grandi crisi e dei confronti bellici.  Le stesse imprese pubbliche italiane hanno prodotto, qui e là, realtà tecnologiche importanti su basi industriali serie; il Nuovo Pignone di ENI ne è un esempio limpido.

La riduzione dell’intervento politico, inteso come strategia, scelte economiche e definizione di regole nell’economia a un’unica rappresentazione caricaturale serve, in realtà, ad Alesina per contrapporre all’illusione della rigida programmazione gerarchizzata il manifesto del libero mercato, una illusione ancora più deleteria, una chimera inafferrabile. Lo affermò, anche se non in termini così negativi, lo stesso Galbraith a proposito della terra di elezione dei due gemelli quando disse negli anni ’50 che “da noi (gli Stati Uniti) la concorrenza è molto più di una nozione tecnica; è il simbolo di tutto ciò che è bene. Anche se noi non potremo continuare a vivere in regime di concorrenza classicamente puro, bisognerà continuare a venerarlo su un trono”. Pochi anni dopo arrivò Eisenhower, uno che se ne intendeva, a mandato presidenziale scaduto, a mettere in guardia il paese e il mondo dal “complesso militare-industriale” ormai determinante nei destini di quel paese.

La direzione verso cui i nostri vogliono andare comincia ad intravedersi quando si scagliano senza macchia contro il programma economico del PD lanciato nel giugno 2012 http://www.partitodemocratico.it/Allegati/politica_industriale_sostenibile.pdf.

Quel documento, in realtà, abbastanza estemporaneo e del resto ormai ampiamente vanificato e contraddetto da comportamenti e scritti successivi, offre una impostazione e spunti interessanti ma senza quei presupposti fondamentali necessari a renderlo credibile e sui quali la nostra testata si è più volte soffermata; è lontano per altro da quei connotati “sovietici” di fatto denunciati dagli editorialisti.

Stigmatizzare così duramente con fuoco amico quello scritto e classificare senza scampo il ruolo dell’intervento pubblico omettendone gli aspetti dinamici via via tendenzialmente offuscatisi nei decenni successivi, da logiche sempre più assistenziali e rinunciatarie, assume un obbiettivo ben preciso.

Eppure Alesina e Giavazzi, il primo un tempo giovane di grandi speranze in predicato di candidatura al Nobel per l’economia, dovrebbero ricordare che in Italia non solo le industrie private mature e, spesso e volentieri, decotte hanno sempre fatto ricorso a politiche e sostegno pubblico con particolare e struggente affezione; anche le poche realtà industriali di grande dimensione e di enormi potenzialità, all’avanguardia nella ricerca e nello sviluppo e commercializzazione dei prodotti, hanno chiesto più volte l’intervento e l’integrazione con il settore pubblico per poter effettuare il salto definitivo.

Il caso emblematico è stato quello dell’Olivetti, negli anni ’60 e ’70 azienda all’avanguardia nell’informatica rispettivamente dei supercomputer e dei personal computer, ma che sul finire del 2012 ha esalato mestamente il suo ultimo e definitivo respiro senza nemmeno il minimo cordoglio, nemmeno quello più ipocrita che di solito si riserva anche alle esistenze più nefaste. http://www.conflittiestrategie.it/lolivetti-vista-da-un-suo-protagonista-giorgio-panattoni-2

Negli anni ’60 la famiglia Olivetti chiese il sostegno e la partecipazione del Governo, della grande imprenditoria privata e pubblica per raggiungere la giusta capacità manageriale, organizzativa e finanziaria necessaria a valorizzare il frutto delle attività di ricerca. Il Governo glissò, l’Iri voltò lo sguardo altrove; ci pensò Valletta a mettere i puntini sulle i. Il succo delle sue posizioni furono che “l’industria italiana non è in grado di gestire processi industriali così complessi e pionieristici”. Valletta fu lo sponsor dichiarato e il gestore della vendita agli americani di General Electric dell’intera divisione informatica. A suo modo, l’allora Presidente della Fiat aveva anche le sue buone ragioni per tanto ardore liquidatorio. Il carattere strategico  del nuovo filone era del tutto incompatibile con la collocazione periferica del paese, con la sua subordinazione politica. Lo sviluppo industriale di quella tecnologia avrebbe richiesto la determinazione di una area di mercato più ampia con paesi in grado di determinare gli standard necessari a crearlo, investimenti adeguati che avrebbero comportato la creazione quantomeno di una area europea autonoma dal predominio e dal controllo politico statunitense. Furono quelli, invece, gli anni della morte di Mattei. L’Italia gustò, allora, l’amara consolazione di non essere la sola a vivere quella condizione. In quegli anni, un paese vittorioso come il Canada vide svaporare letteralmente in poche settimane una realtà industriale d’avanguardia come il progetto Arrow e Avro Jetliner. Alla fine degli anni ’50 il Canada mise in produzione dei jet con caratteristiche tali da scompaginare gli equilibri militari della Guerra Fredda e da rivoluzionare l’aviazione civile. Gli standard garantiti erano equivalenti a quelli degli aerei americani degli anni ’70. Quella produzione scomparve dal paese in poche settimane senza alcuna giustificazione plausibile e la sua tecnologia riapparve gradualmente negli aerei americani sino a metà anni ’70; eppure il mercato canadese era già ampiamente integrato con quello americano già in quegli anni.

La seconda occasione di Olivetti arrivò negli anni ’80 quando si aprì un conflitto tra una parte del management interno e la proprietà dell’Azienda in mano a De Benedetti. Alcuni manager colsero l’opportunità della possibile associazione personal computer-telematica e condussero a definire un accordo paritetico con Stet, società dell’Iri, per mettere in opera in pratica quello che sarebbe diventato “internet”. Il progetto saltò per l’ostinazione del “privato” De Benedetti impuntatosi sulla richiesta del 51% della proprietà e sull’inclusione dello stabilimento di Marcianise nel progetto. Eppure anche in quel caso il mercato prometteva bene.

Furono l’inizio della fortuna personale di De Benedetti e del declino di Olivetti.

Ancora oggi Alesina e Giavazzi hanno la possibilità di sbattere contro la realtà senza che le loro convinzioni vacillino minimamente. Come si fa a definire l’Italia un mercato mancato pur con la presenza ormai dominante di piccole e medie aziende; eppure i nostri sono in grado di trarre un bilancio di quarant’anni di “piccolo e bello”, del livello di organizzazione gestionale, tecnologico, della capacità di innovazione tipica delle piccole aziende, più legata alla razionalizzazione e al miglioramento del prodotto maturo. Con un po’ di attenzione scoprirebbero che la dimensione ridotta richiede ancor più l’intervento politico, il finanziamento della ricerca e delle filiere, una politica di assistenza alla commercializzazione che i nostri, purtroppo in buona compagnia, vorrebbero invece liquidare affidando ad investitori esteri la gestione delle apposite società preposte(Face, ect) attualmente in mano pubblica.

I nostri risolvono il problema lanciando sorprendentemente il cuore oltre l’ostacolo; “Oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla frontiera tecnologica. Oggi si cresce innovando, non imitando. La crescita oggi richiede innovazione e per innovare la politica industriale che tanto successo ebbe nel Dopoguerra non funziona”; ancora “L’innovazione è per definizione imprevedibile”, “Quello di cui abbiamo bisogno sono università eccellenti, la capacità di trattenere e attrarre i cervelli migliori, e una dose massiccia di «distruzione creativa», cioè un ambiente dove le vecchie imprese chiudono rapidamente e possono essere sostituite da aziende nuove, perché è in queste che più facilmente nascono le idee e si creano nuovi prodotti”; “Per questo è necessaria grande flessibilità. Innanzitutto un mercato finanziario e un mercato flessibile del controllo proprietario delle aziende, in cui non si incrostino gruppi di potere inamovibili”; “Oggi le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario”. Conclusione trionfale: “Oggi l’Italia è un Paese alla frontiera della tecnologia. In questo mondo per crescere servono creatività e flessibilità, non una politica industriale che affida le scelte allo Stato”.

Dalle stalle alle stelle. Per salirci, però, i nostri scelgono la comoda regressione romantica alla costruzione di una astronave avveniristica.

Rappresentano le meraviglie di un paese che non c’era ai loro occhi solo pochi giorni prima.

Ritengono l’innovazione imprevedibile, il risultato casuale dell’estro individuale  riconducibile più all’avventura degli alchimisti e della ricerca individuale tipica del ‘800 che alla programmazione scientifica degli attuali laboratori di ricerca. Se i nostri andassero a vedere un po’ meglio le dinamiche che hanno creato ad esempio i fenomeni della Silicon Valley negli States, scoprirebbero lo zampone della spesa militare pubblica, le  direttive del complesso militare nel definire standard ed indirizzi, come anche il peso organizzativo e di capacità di spesa di altri centri di servizio come il settore sanitario, la partecipazione frequente delle grosse aziende nella formazione delle società “start up” sperimentali, il trasferimento di tecnologie militari nel settore civile, la selezione e i vincoli di lunga durata posti ai finanziamenti  provenienti dall’estero; le reali condizioni che hanno consentito l’emergere di nuove figure imprenditoriali e specialistiche. Tutti fattori propri di uno stato sovrano, di gruppi dirigenti in grado di elaborare e condurre strategie e di gestire una concorrenza regolata resa possibile dalle dimensioni del mercato e dalla capacità di determinarne le regole e la complementarietà rispetto alle strategie politiche. In quel contesto, lo stesso successo o la rovina economica dipendono in gran parte dal successo delle strategie politiche proprie, quando ai paesi più subordinati non resta che cercare le nicchie e lucrare sulle strategie altrui.

I nostri gemelli della penna più che maestri raziocinanti, sono ormai predicatori che si sono assunti il compito dettato da Galbraith, nella citazione di poc’anzi.

Per incoronare la libera concorrenza economica sul trono fittizio e ingannevole del carnevale mediatico, devono rappresentare il mercato come una rete il cui campo di azione è occupato da atomi in competizione tra loro piuttosto che da strutture di molecole sempre più complesse interagenti le quali hanno bisogno di catalizzatori per formarsi e vivere; devono indicare il movente dei singoli attori nel predominante e quasi esclusivo interesse economico piuttosto che la loro non effimera realizzazione secondo le compatibilità dettate dalle strategie politiche dei gruppi dominanti.

Basterebbero, a puro titolo indicativo, gli esempi dell’attuale costituzione dell’area economica del Pacifico (TPP) e delle nuove strategie militari intraprese da Obama, per comprendere la priorità del confronto geopolitico rispetto alle scelte economiche, comprese quelle di definizione dei mercati e l’interazione tra i vari ambiti.

A differenza, però, degli attuali europeisti dominanti i quali supportano il dogma dell’Unione Europea quantomeno con una visibile struttura di potere ed amministrativa, gli apologeti del mercato non offrono altro che il rifugio nella parola, il MERCATO e la LIBERA CONCORRENZA, in pratica un totem senza particolari definizioni concrete, lasciando così campo libero agli arbitri e alle condotte più prepotenti dei dominanti, facilitati in questo dalla considerazione, secondo il verbo dei predicatori, che la provenienza degli attori, nazionale e sociale, sia del tutto ininfluente sulle dinamiche di mercato.

Se questa incoronazione, per quanto ideologica, nell’accezione di strumentale, nei paesi dominanti assolve alla funzione di garantire il dinamismo, alimentare il mito della mobilità sociale e mantenere in qualche maniera la coesione sociale, nei paesi più subordinati e periferici,  tra i quali l’Italia è sempre più collocata, la religione dei nostri predicatori rappresenta il cavallo di Troia per disarmare completamente il paese e i suoi abitanti a vantaggio di un pugno di cortigiani locali e di operatori cosiddetti di nicchia, termine così di moda tra i profeti dell’”italian style”; per ben che vada, il paese diventerebbe tutt’al più luogo di sperimentazione dei rischi, accertati i quali spetta ai paesi dominanti, alle loro aziende trarre vantaggio su larga scala. Il peggio, purtroppo, lo stiamo prospettando in questi giorni con le vicende di Finmeccanica, ENI, ILVA, AVIO e con l’acquisizione persino di industrie medie dei settori di base da parte di investitori esteri, con grande gaudio dei mercenari nostrani e compiacimento dei loro rappresentanti politici. È il motivo del fastidio irrefrenabile dei nostri alla rivendicazione di ogni forma sia pure flebile di controllo, di intervento e di difesa del patrimonio industriale nazionale e dei flussi finanziari presenti nei programmi di partito, compresi quelli del PD.

Del resto, bisogna comprenderli, i tremebondi. A differenza dei loro colleghi predicatori nella madrepatria dominante, si sono assunti il ruolo ingrato di propagare quella religione e osannare quell’incoronazione tra le vittime sacrificali designate nelle periferie dell’impero.

Il loro sarebbe un ruolo appena più dignitoso se si prodigassero a far diventare il mercato europeo autonomo e sovrano rispetto alle mire di oltre-atlantico e ad innescare quel dinamismo, anche concorrenziale, ma prevalentemente di tipo oligopolista, che ha contribuito alla fortuna della formazione sociale statunitense.

La “distruzione creativa” che auspicano riguarda invece le poche realtà significative sotto controllo nazionale, piuttosto che le aziende decotte.

Si continua, quindi, nella perenne diatriba astratta tra pubblico e privato piuttosto che entrare nel concreto dell’analisi della formazione sociale, delle modalità di drenaggio del risparmio, dell’ampiezza del mercato, della formazione di un ceto imprenditoriale e manageriale, del vincolo del debito pubblico rispetto alla collocazione del risparmio, della collocazione politica del paese e decidere pragmaticamente di tale rapporto.

Sarebbe richiesto un atto di volontà politica ben determinato. I nostri, invece, al pari della pletora di ascari più navigati che infestano il paese, preferiscono mantenere un piede in Italia e un piede al di là dell’Atlantico.

Non si sa mai, dovesse precipitare irrimediabilmente la situazione, la personale via di fuga è tracciata; la gloria e la dignità sono un lusso da riservare a momenti migliori.


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