Proseguono le interviste di Via dei Serpenti con Carola Susani, autrice di Eravamo bambini abbastanza (minimum fax). Qui la nostra recensione.
Carola Susani è nata a Marostica nel 1965 e ha esordito a trent’anni con Il libro di Teresa (Giunti). Nel 2006 minimum fax ha pubblicato la sua raccolta di racconti Pecore vive, selezionata al Premio Strega 2007.
Prima di parlare del suo ultimo libro Eravamo bambini abbastanza, una domanda sul suo esordio; lei è stata una scoperta di Enzo Siciliano. Com’è nata la vostra intesa intellettuale e l’ammirazione di Siciliano per la sua scrittura?
La cosa è un po’ complessa. Enzo ha avuto sicuramente un ruolo importante per il mio esordio. Era il ’93 e io ho mandato alcuni dei miei racconti a Sandro Veronesi su consiglio di Marco Papa; è uno scrittore molto bravo che scrisse vari libri per Theoria, la casa editrice che pubblicò anche Diario di un millennio che fugge, quindi una casa editrice trainante e che dava un po’ il segno dei tempi. Marco pubblicava lì ed era il nostro punto di riferimento, poi ha smesso di pubblicare prosa e continua a pubblicare poesia; le sue poesie sono molto interessanti, pubblica soprattutto per Empiria. Marco mi consiglia di spedire i miei racconti a Sandro Veronesi che in quel periodo era segretario di redazione di «Nuovi Argomenti». Io mando i miei racconti e tutto tace. Il silenzio dura un anno e dopo un anno sento squillare il telefono, mi chiama Sandro Veronesi e mi dice: «Guarda i tuoi racconti mi piacciono molto, uno si pubblica subito su “Nuovi Argomenti”, conosciamoci». Dopodiché ho conosciuto Enzo Siciliano, Edoardo Albinati, Arnaldo Colasanti, Emanuele Trevi, insomma tutto il gruppo di allora di «Nuovi Argomenti» e per quanto riguarda Enzo, lui ha avuto un ruolo importante per la pubblicazione del mio primo libro che è Il libro di Teresa, una raccolta di racconti di cui due erano già usciti con «Nuovi Argomenti». Enzo si appassionò a questo libro e decise di pubblicarlo su una collana, Mercurio, che in quel momento stava per partire con la casa editrice Giunti e di cui Enzo era direttore; fu una collana sfortunata da un punto di vista di mercato ma una collana segno dei tempi perché ci pubblicammo io, Andrea Carraro, Edoardo Albinati, Aurelio Picca, insomma un po’ di nomi che in quel momento erano i nomi della letteratura nuova collegata a «Nuovi argomenti» in sostanza.
Si trova a suo agio nella collana nichel di minimum fax? Perché? Trova delle rispondenze fra il suo romanzo e lo stile e lo spirito di altri romanzi della collana?
Mi trovo perfettamente a mio agio dentro nichel e amo molto minimum fax con cui ho avuto a che fare già con Pecore vive nel 2006; allora ero una scrittrice già matura. Ho scelto di pubblicare con loro perché ho profonda stima del progetto editoriale. Non sono un’appassionata di letteratura americana in senso totale, però alcune loro scelte mi sembrano veramente interessanti, per esempio tra gli ultimi titoli di nichel la mia grande passione è il libro di Giorgio Vasta e mi piace moltissimo il libro di Carlo De Amicis; ho interesse per lo stile di questa casa editrice che è non selvaggio, non barbaro, non barbarico nei rapporti tra le persone, nei rapporti economici.
Se non è troppo indiscreto, com’è stato il suo rapporto con l’editor nel lavorare a quest’ultimo romanzo?
Il mio rapporto con Nicola Lagioia ha avuto due momenti radicalmente opposti. Prima non lo sopportavo, avevo invece un grandissimo feeling con Christian Raimo, che è stato il primo lettore di Pecore vive; quando è spuntato all’orizzonte Nicola Lagioia il tipo di osservazioni che mi faceva mi irrigidivano e mi innervosivano moltissimo, stavo sulla difensiva in un modo assoluto. Siamo comunque arrivati alla fine del lavoro di editing devo dire anche con soddisfazione, poi gli ho reso l’onore delle armi, cioè mi sono resa conto che aveva visto di tanto in tanto delle cose importanti, nella sua ostinazione, pervicacia e ossessione del dettaglio, secondo me di quello sbagliato. Quando poi abbiamo cominciato a lavorare sul nuovo romanzo, Eravamo bambini abbastanza, è stata invece una passione, ci siamo divertiti pazzamente, non abbiamo più avuto motivo di conflitto, tanto che io ero preoccupata, mi chiedevo: «Posso davvero avere un editor che è un complice? Dove andiamo a finire?». È stata un’esperienza così galvanizzante, bella, entusiasmante.
Si riconosce nelle parole di Marco Lodoli: «In lei si avverte la lezione creaturale di Pasolini e della Morante»?
Il tema della creaturalità mi interessa moltissimo, cioè mi interessa il rapporto di non onnipotenza fra l’essere umano e il mondo in cui si trova a vivere, l’idea che l’essere umano sia libero in quanto determinato continuamente da forze che sono in conflitto tra loro e che non sia una specie di eroe titanico più forte di tutto. La profonda forza e passione che l’umano può suscitare dipende anche dalla sua fragilità e dalla sua continua trasformazione. Rispetto a Pasolini e Morante io ho tanti pensieri che sono diversi dal fatto di essere io in un rapporto diretto di filiazione, però è vero che sono stati dei libri formativi per generazioni, non soltanto per me. Libri e figure, perché la particolarità di Morante e Pasolini è stata quella di essere state delle figure, delle potenze che con il loro corpo hanno un po’ scritto la cultura in Italia. Di loro amo il fatto di pensare al mondo senza prescindere dal tema religioso e in particolare da quello legato alla nostra tradizione religiosa, amo cioè la loro capacità di interloquire con un cattolicesimo che è stato formativo per loro e lo è stato e lo è per me; mi sembra il dato che più mi lega a Pasolini e Morante. A Pasolini anche una certa mia ossessione ragionativa, cioè non riesco a pensare una letteratura che non sia in qualche modo anche filosofica. Morante la amo tanto e mi fa tanto arrabbiare perché il suo sguardo sulle creature, soprattutto quello della Storia, ma in negativo anche quello di Aracoeli, è un rapporto con le creature come se le creature fossero davvero innocenti. Io non credo nell’innocenza delle creature, io ho l’impressione che il fatto di essere se non in qualunque atto quasi, portatori e portatrici di colpa, sia il seme della salvezza delle creature; ho una ribellione nei confronti di Morante, mi sembra ci renda impotenti.
Nel romanzo Eravamo bambini abbastanza: il passaggio a sud, la direzione del viaggio dei bambini con il Raptor, ha un significato simbolico per lei collegabile alla sua esperienza biografica (da Vicenza alla valle del Belice)?
Sì, proprio sì, perché per me il Sud è un conturbante impasto di pace e violenza, è l’unico posto che riesco, benché non sia casa mia perché io sono veneta di nascita, è l’unico posto in cui sento di avere una radice. Ce l’ho messa, non trovata, ce l’ho dovuta mettere.
Ci spiega il significato del titolo? Ogni lettore avrà già trovato la sua motivazione, ma cosa significa per lei?
Sa quando si dice “eravamo grandi abbastanza per affrontare…”, “eravamo forti abbastanza per affrontare questa pugna, questa battaglia…”, Eravamo bambini abbastanza è la stessa cosa, cioè essere sufficientemente bambini per andare alla radice delle cose.
I bambini si muovono fra sofferenza e avventura come se la loro prigionia fosse quasi una formazione. Trova che questa condizione sia un paradigma rappresentativo della vita di ogni bambino? O Manuel, Tania, Ana, Filip, Leonid, Alex, Dragan sono eccezioni, casi isolati?
Non penso che loro siano eccezionali, io penso che loro siano esemplari, cioè che ci sia una radicalità nella loro condizione, ma che la loro condizione sia esemplare dell’infanzia.
Il Raptor somiglia a un personaggio delle sue letture? Che cosa rappresenta per lei quest’uomo e la soggezione che ispira, prima di tutti ai bambini?
È un padre deforme, quello che ne è restato dell’idea ottocentesca di padre; si è deformato, ha perso sentimento di responsabilità, la responsabilità si è trasformata in ratto, l’amore, la possibilità di dare amore è semplice bisogno. È un personaggio però in cui ci si può specchiare, un produttore di amore in quanto esiste, cioè per il solo fatto di esistere ti fa specchio e così tu ti vedi attraverso di lui e quindi ne hai bisogno. Nella cronaca contemporanea è anche un capo terrorista, c’è Bin Laden in qualche modo dentro al Raptor, c’è anche il poveraccio che incontri in mezzo alla strada che ha dato di matto ed è diventato un maniaco religioso dopo che è stato bocciato all’esame di ingegneria. È un filo molto ampio che lega delle persone, dei segni contemporanei, delle immagini, delle figure contemporanee che sono delle figure della sete, del bisogno, che poi è bisogno d’amore, e forse anche di qualcos’altro. Nella figura del Raptor c’è un’arsura, una sete che non si estingue e che lui cerca di estinguere procurandosi amore.
Nel suo romanzo non ci sono buoni e cattivi. Tutti i bambini sono un concentrato paradossale di malizia e innocenza. È una favola al contrario? A quale genere letterario o a quale tipo di storie accosterebbe il suo romanzo?
In primo luogo è un romanzo picaresco, perché è nato come un romanzo picaresco, perché il fatto di essere un romanzo di viaggio ha molto a che fare col picaresco, perché i comportamenti sono comportamenti picareschi, il tipo di narrazione lo è. È un picaresco diventato contemporaneo passando dall’Ottocento; è un romanzo di formazione, che è un po’ la forma che il romanzo picaresco prende dall’Ottocento in poi. Dentro c’è una microtrama di genere che è una cosa che mi diverte, un lato romanzo poliziesco, ma fondamentalmente direi che è un romanzo di formazione strutturato come un romanzo picaresco.
Che spazio occupa la Storia (per tornare alla Morante) nel romanzo?
La nostra storia contemporanea ha molto a che vedere col romanzo. Io penso che gli scrittori si interessino delle incarnazioni di un umano eterno però nella concretezza della storia presente, e questo libro è un libro che parla di contemporaneità cioè parla dello sfaldamento di un’aspettativa rispetto al mondo e di quello che succede nel passaggio verso qualcosa che non sappiamo cosa sia. È un momento molto delicato della nostra storia e loro lo attraversano come se fossero avanguardie.
Movimento TQ. Ha ancora senso parlare di generazioni di scrittori?
Io sono dentro TQ, lo sono con un imbarazzo infinito però anche con molta convinzione, cioè credo che lavorare insieme, provare a mettersi insieme per pensare a trovare soluzioni e non soltanto a lamentare insufficienze, sia l’unica strada. Cerchiamo anche delle soluzioni che siano moderate, però le letture della realtà devono per forza essere radicali, soprattutto in un momento come questo in cui la forma attuale del capitalismo finanziario ha fatto vedere la corda, si è rivelato per quello che è. Io che non sono mai stata comunista, anzi sono sempre stata critica verso il comunismo, penso però di dovere essere altrettanto ferocemente critica verso l’attuale fase del capitalismo. Questo è un po’ la ragione per cui firmai a suo tempo il Manifesto di TQ e anche perché, come dicevo, questo gruppo di intellettuali, di editori e di scrittori cercava di dare strade, soluzioni. C’è un Manifesto dell’editoria, un Manifesto dell’Università che secondo me sono molto lucidi. Potrei anche dire le ragioni per cui mi sento stroppo stretta dentro a TQ sicuramente, però è anche vero che per le persone della mia generazione, trovarsi a proprio agio dentro a un gruppo, dentro un’adesione, credo sia impossibile.
Quali sono i suoi prossimi progetti? Sta scrivendo un nuovo romanzo? Può darci qualche anticipazione?
Adesso mi sto riposando. Ho un progetto che non è un progetto mio: vorrei curare le lezioni di mio padre. Mio padre era uno studioso di Storia dell’architettura e di urbanistica che è morto a cinquant’anni nell’’87 e mi sembra sia arrivato il momento, visto che io sono arrivata alla mezza età, anche se non me ne rendo conto fino in fondo, non lo accetto fino in fondo, ma è un fatto. A questo punto è bene anche provare a restituire ai lettori il lavoro di mio padre che è stato interrotto in volo. Vorrei restituire quello che posso restituire ai suoi lettori necessari.
Che cosa le piace leggere? Che cosa non le piace?
Sono una lettrice onnivora. Riesco a leggere dallo sperimentalismo più acceso, più profondo, nello scardinamento linguistico, ad Harry Potter. Ho una passione quasi a tutto tondo per la letteratura, mi piace, mi diverte, a volte mi ipnotizza, ha una funzione nella mia vita di grande soddisfazione (dal gelato alla crema alla riflessione profonda). Le cose che amo in modo indiscutibile vanno da Flannery O’Connor a Dostoevskij a Marina Cvetaeva a Foster Wallace. Anche Maria Zambrano è una mia grande passione. La maggior parte delle mie letture di passione sono femminili e non mi sono mai domandata bene perché, ma è un fatto. Per quanto riguarda l’Italia, in questo momento sono molto colpita perché è una primavera di grande fioritura di libri interessanti e direi addirittura belli; sono bei libri quello di Piperno e il libro di Emanuele Trevi, ma proprio belli, in modo radicalmente diverso, molto alternativo, comunque è un momento in cui vedo fiorire una bella letteratura italiana matura; sono molto soddisfatta.
Cosa non mi piace leggere: non mi piace leggere libri in cui la lingua è sciatta e non pensata, in questo caso ho proprio una sensazione fisica di rigetto e questo può capitare, ma è una sofferenza molto limitata perché mi basta la prima pagina poi il libro viene ricacciato indietro; forse sarebbe ingeneroso dire con cosa mi è successo di recente.