Le interviste di Via dei Serpenti: Francesco Formaggi

Creato il 20 febbraio 2014 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

di Emanuela D’Alessio

Francesco Formaggi è nato nel 1980 in provincia di Frosinone. Laureato in Filosofia estetica, ha svolto numerosi mestieri: è stato cameriere, commesso e operatore in un call center. Con Birignao (embrione de Il casale) ha vinto il premio creatività della Scuola Holden. Collabora con Nuovi Argomenti.

Il casale, suo libro di esordio pubblicato da Neri Pozza nel 2013, è una storia dai toni ironici e grotteschi che vira progressivamente verso il thriller, cupo e inquietante. L’ambientazione, in apparenza tranquilla e rassicurante come può essere quella di un casale di campagna in estate, si trasforma rapidamente in un luogo colmo di segreti e menzogne, in un gioco tra verità e finzione dove nulla è ciò che appare. Al centro della storia c’è Francesco, un ragazzo di città annoiato e oppresso che controvoglia si appresta, senza speranza, senza disperazione, a trascorrere una vacanza con la fidanzata Giulia nel casale della zia Ester. La ragazza è graziosa, minuta e gentile, ma ha qualcosa di strano, eccessivo, «un alluce enorme, gonfio, tozzo, quasi brutale, sormontato da un alone giallastro che è senza dubbio l’abbozzo di un callo». La scoperta dell’alluce deforme è l’incipit di un incubo nel quale Francesco sprofonda lentamente, popolato da personaggi stravaganti, cadaveri di animali orrendamente mutilati, eventi inspiegabili fino alla misteriosa scomparsa di Franco, il marito di Ester. Un incubo fatale dal quale Francesco non riuscirà a risvegliarsi. L’ineluttabilità del male sembra essere il tema della storia di Formaggi, abile nel mantenere costanti il ritmo della narrazione e la tensione necessari per arrivare in fondo, quando tutti i nodi si sciolgono. «Nessun male si compie di proposito, finché non ti ritrovi a farlo».  Ma il male, ci dice l’autore, «è una cosa con cui tutti noi dobbiamo fare i conti, perché è stupido pensare che ci venga tolto dal battesimo, ma più stupido ancora è pensare che ce l’abbiamo incorporato dalla nascita, perché ciò che c’è di malvagio e perverso nell’uomo è soprattutto l’incapacità, o l’indifferenza, di reagire al caos, alla spinta verso l’annichilimento, verso la distruzione».

Dovendo scrivere la tua biografia, che cosa diresti di Francesco Formaggi?
Con questa domanda mi fai venire in mente l’incipit de Il giovane Holden: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne».
Non è che non abbia voglia di raccontarmi, ma la mia biografia ha poco o niente a che fare con il romanzo e in genere con la mia narrativa. Sono due mondi diversi, e poiché appartengo a quella razza di scrittori che crede ancora che la cosa più importante sia l’opera, che uno scrittore dovrebbe essere giudicato esclusivamente per quello che narra, perché è lì che riversa tutto il suo impegno e la sua creatività, non trovo particolarmente importante il racconto della mia vita. Forse, a questo proposito, soltanto la mia origine può suscitare interesse, perché è sedimentata nel mio modo di scrivere, e parlo del fatto che sono nato e cresciuto in un paese molto piccolo e molto isolato di duemila abitanti che si chiama Sgurgola, in Ciociaria, a qualche chilometro di curve che dalla valle del fiume Sacco salgono verso la montagna. Ecco, se la mia scrittura ha una tendenza e se questa tendenza è quella di chiudere, di serrare, di concentrare tutta l’azione della storia in ambienti claustrofobici, forse dipende dalle mie origini e dalla mia infanzia di paese “schifa”, come direbbe Holden. Vorrei aggiungere un’altra cosa, è doveroso: non odio gli animali, sia detto chiaramente. Non li amo neanche, ma odiarli al punto da spennarli o bruciarli o appenderli no, non l’ho mai fatto e non lo farei mai. 

Ultimamente si è scatenato il fenomeno del self-publishing. Perché secondo te si sta affermando questa presunzione di poter fare meglio e subito rispetto al tradizionale percorso in casa editrice?
Il fenomeno è vasto e complesso, e lo dico non perché voglia tirarmi fuori dalla discussione, tutt’altro, ma perché ormai è chiaro che ha una base culturale – direi un sostrato – così ampia (abbraccia tutte le manifestazioni artistiche, il canto, il ballo, il cinema, la musica e non solo quelle) che sarebbe quasi inutile limitare il discorso ai libri, sarebbe come accendere una torcia portatile di notte con l’idea di illuminare uno stadio intero. È pur vero che non abbiamo altre fonti di illuminazione qui, e allora nel cono di luce che la piccola torcia proietta sul gesto dell’autopubblicazione io vedo innanzitutto la paura di confrontarsi col mondo, poi un istinto di masturbazione, l’illusione di fama, e infine una ingovernabile vanità, che è il desiderio di essere apprezzati. Quindi penso: se il giovane autore che si autopubblica non avesse paura del confronto col mondo, e quindi di ricevere una batosta, o peggio ancora un apprezzamento che lo spingerebbe a dover fare ancora meglio, non si riterrebbe così infallibile come scrittore da credere che la sua opera sia perfetta. Spenderebbe invece le sue energie e il suo tempo a proporla agli editori, a cercare il modo di migliorarla, anziché credere che sia così compiuta e definitiva da poter essere sigillata dentro la forma immodificabile del libro stampato. Penso: se il giovane autore che si autopubblica non fosse interessato soprattutto alla fama incredibilmente illusoria che può dare la pubblicazione di un libro, allora non avrebbe alcuna difficoltà ad aspettare mesi o anni la risposta di un editore, e non esiterebbe a gettare nel cestino la sua opera, se non è buona, per crearne un’altra che sia degna di pubblicazione. Penso: questo vale anche per la vanità. Naturalmente esistono realtà in cui l’autopubblicazione è tutt’altro che paura del confronto e masturbazione, ma nasce invece come esigenza di rifiuto di un ordine costituito, sterile e miope. Tuttavia, se mi guardo intorno, la maggior parte degli autori autopubblicati sono masturbatori: se la cantano e se la suonano e se la ballano da soli, come si dice dalle mie parti.
Sono dell’idea che ognuno debba fare ciò che vuole, e anche se ho sempre provato una naturale diffidenza verso i musicisti banchieri, i pittori postini, i preti puttanieri o le puttane monache (ma questa è una mia limitazione personale, è chiaro) credo che sia altrettanto sciocco e miope sostenere che le cose si debbano fare in un modo anziché in un altro. Pure sono certo di una cosa: gli autori che decidono di autopubblicarsi perdono una grande occasione di miglioramento, di trasformazione e quindi di crescita, sia come scrittori sia come persone, rischiando così di vedere sfumato il proprio sogno. Ciò che invece dovrebbe esserci, dentro quel cono di luce, se ci limitiamo a parlare di libri, quindi di letteratura – ma non c’è e non lascia alcuna traccia di sé nel gesto dell’autopubblicazione – è il desiderio di creare un’opera letteraria e la consapevolezza dello sforzo e del lavoro necessari per realizzarla. E qui si apre un altro tema che per me confina e anzi spesso si sovrappone a quello dell’autopubblicazione, e riguarda il motivo per cui in Italia si fa fatica a considerare la scrittura come una professione.
Fin dai primi anni di scuola superiore siamo immersi nella percezione che la letteratura appartenga a un altro mondo, al mondo dei morti, che gli scrittori siano tali perché possiedono capacità sovrannaturali. Il pensiero di derivazione romantica che lo scrittore abbia capacità non umane o che tragga la sua creatività da forze sovrannaturali (questo è il concetto di “ispirazione”) è ancora ben presente nella nostra cultura, anche se viene camuffato (l’x factor?). Me ne rendo conto ogni volta che mi capita di parlare di letteratura con i ragazzi delle superiori. Quando dico ad esempio che Pirandello o Calvino, alla loro età, probabilmente scrivevano molto peggio di come scrivono loro adesso, mi guardano come se fossi pazzo. Dall’altra parte, invece, chi non crede che la letteratura si possa fare solo per investitura divina, è convinto che sia una cosa da niente, quindi non pecca di ingenuità filo cattolica ma di indifferenza, perché crede che sia sufficiente utilizzare un programma di scrittura (magari uno di quelli che decidono tutto al posto tuo) e riempire di parole un paio di cento pagine per creare un’opera di letteratura e aspirare alla pubblicazione. Anzi, poiché è convinto che le case editrici sono tutte uguali nella loro mediocrità, tanto vale pubblicarsi da solo, e visto che scrivono tutti perché non dovrei farlo anche io e diventare anche famoso? Per concludere con una metafora, dico che autopubblicarsi è come avere una gran voglia di fare sesso ma, non riuscendo a rimorchiare le ragazze, ci si deve accontentare di masturbarsi.

Francesco Formaggi

Hai esordito direttamente con una grande casa editrice come Neri Pozza. Come è avvenuto l’incontro?
Come i cowboy nei film western, lancio una corda col cappio al di sopra della tua domanda e mi aggancio alla risposta precedente. La prima versione de Il casale, che in un certo qual modo è il primo libro che ho scritto e anche il primo che sono riuscito a pubblicare, l’ho portata a termine nel 2007, e a quei tempi si chiamava Birignao. Poiché ero un masturbatore e avevo paura di confrontarmi con la realtà, e probabilmente mi credevo più bravo di quanto non fossi, ho fatto qualche misero tentativo di contatto con un paio di case editrici, invano. Poi ho creduto che quel libro non avesse futuro e mi sono messo a scriverne un altro. Volevo pubblicare, certo, vedere il mio libro tra gli scaffali delle librerie, ma più di ogni altra cosa volevo scrivere, volevo tenere vivo e rendere perpetuo nella mia vita il gesto della scrittura che è immaginazione disposta alla creazione di storie. A quei tempi esisteva da poco il sito ilmiolibro.it, e poiché mi sembrava una cosa carina averci tra le mani il mio romanzo in forma di libro di carta, ho deciso di farmelo stampare. Una copia, poco meno di dieci euro. Dopo un paio di settimane mi è arrivata la busta a casa. È stata una bella sensazione avere il romanzo lì in una forma concreta e palpabile, sfogliarlo e annusarlo. Ma era solo una finzione, come stringere un bambolotto di gomma al posto di un figlio vero, ne ero consapevole, e non ho mai smesso di desiderare una pubblicazione reale. Poi però è accaduto che ilmiolibro.it ha indetto un concorso in collaborazione con la Scuola Holden e la Feltrinelli e ho deciso di partecipare. Fortunatamente bastava mettere in vetrina sul sito il proprio libro e fare un clic. Se avessi dovuto incartarlo e spedirlo, probabilmente non avrei partecipato al concorso. Si chiamava ilmioesordio.it, era la prima edizione, nel 2010, e il vincitore sarebbe stato pubblicato in settemila copie dall’editore Feltrinelli. Insomma, valeva la pena provare. Non ho vinto, ma la Scuola Holden mi ha dato il premio creatività (che era un po’ come il premio della critica al festival di Sanremo) grazie al quale mi hanno invitato a partecipare a Esor-dire con un racconto inedito, dove la mia attuale agente letteraria, che era seduta in prima fila, folgorata dalla mia sfavillante pettinatura ha pensato che valesse la pena propormi di entrare nella sua squadra di autori.

Fabio Stassi

E così ho cominciato a collaborare con l’agenzia, ho riscritto integralmente il romanzo, migliorandolo. Dopo un anno di lavoro, dopo vari interventi di editing, quando il romanzo era finalmente arrivato al massimo della sua forma, lo abbiamo proposto a Neri Pozza e Neri Pozza, che aveva deciso di aprirsi alla narrativa italiana, ha detto che era buono e l’ha acquisito. Da quel momento, era la fine del 2012, è iniziato un altro lavoro sul testo, ossia il lavoro di editing con la casa editrice, e dopo un altro anno il libro è uscito in libreria. Insomma: molto tempo, molti dubbi, molte incertezze, molti tentativi, molte strade senza uscita, molte epifanie, ma soprattutto molto, moltissimo lavoro. Adesso mi sembra che siano passati cento anni, e non riesco più a rileggere il libro: mi sembra che a scriverlo sia stata la mia versione da poppante, ma è una percezione distorta che credo abbiano un po’ tutti guardando a ciò che hanno realizzato.

Il casale è un romanzo dai toni ironici e grotteschi che vira progressivamente verso il thriller, cupo e inquietante. Era questo il romanzo che volevi scrivere e perché?
Quando penso alla storia compositiva de Il casalemi viene sempre in mente questa immagine: una spiaggia deserta all’ora del tramonto, il mare calmo lambisce la sabbia, alle spalle una parete di roccia. A un certo punto arriva un bambino col suo secchiello e le sue formine che si mette a costruire un castello di sabbia. Quando il sole affonda nell’acqua e il cielo si fa scuro, il bambino prende le sue cose e se ne va. Il giorno dopo torna, ed è sorpreso di trovare il suo castello ancora in piedi, sebbene mezzo distrutto dalle onde. Così lo raddrizza, rafforza le fondamenta, aggiunge qualche guglia, delinea qualche finestra, finché non arriva sera. Tornando a casa vede che il mare è mosso ed è convinto che nella notte le onde spazzeranno via tutto, ma non se ne preoccupa. Il giorno dopo però il suo castello è ancora lì, e lui continua a costruirlo, lo fa più grosso e robusto, scava un fossato di protezione tutto attorno e poi arriva sera, e torna a casa, e il giorno dopo continua a costruire, e il giorno dopo ancora. Una mattina, mentre impasta la sabbia, un’onda alta due metri lo sommerge e quando l’acqua si ritira il castello è quasi distrutto. Però il bambino lo rimette a posto e continua il suo lavoro, che è un gioco, è un divertimento, perché i bambini giocano finché c’è divertimento. Nel corso dell’estate arrivano altre due onde giganti che per poco non distruggono il castello, ma il bambino riparte sempre da lì, da ciò che rimane, e ristruttura, e continua a costruire. Finché una sera una donna a passeggio sulla battigia nota il castello, si ferma a guardarlo, si avvicina, chiede al bambino se lo ha fatto lui, il bambino risponde di sì, e la donna dice che è molto bello, che le piacerebbe portare altre persone a guardarlo. È una costruzione alta ormai, e solida, anche se fatta di sabbia, e potrebbero starci dentro dieci uomini in piedi. Il giorno dopo un signore amico della donna dice al bambino che comprerebbe volentieri il suo castello. Quando il bambino gli chiede come si chiama, il signore risponde Neri Pozza. Ecco, credo che non ci sia niente da aggiungere a questa storiella, tranne il fatto che le onde giganti, che per ben tre volte hanno rischiato di distruggere il castello, costringendo il bambino a ricostruirlo quasi da zero, altro non sono che le critiche più puntuali di amici scrittori, Fabio Stassi prima di tutti, e poi l’editing della mia editor e dell’agenzia, e le ondate successive di riscritture e revisioni con la casa editrice.

«Poi lo vedo, prepotente, eccessivo: l’alluce storto che prorompe sopra la morbidezza affusolata di quei piedi come un urlo barbarico quando tutto intorno è silenzio. È un alluce enorme, gonfio, tozzo, quasi brutale, sormontato da un alone giallastro che è senza dubbio l’abbozzo di un callo». Un dettaglio di per sé irrilevante ma per Francesco, il protagonista della storia, assume un significato nefasto. L’alluce deforme della fidanzata Giulia è l’incipit di una progressiva precipitazione degli eventi. Una stortura estetica come metafora delle storture dell’animo? 
Direi più una stortura estetica come incrinatura nell’involucro immacolato della forma dietro il quale, una volta sgretolato, compare l’animo umano nei suoi aspetti più storti e distorti e nefasti. 

I vari personaggi della storia non sono quello che appaiono, nascondono una personalità spesso opposta a quella inizialmente percepita, insospettabile e inquietante. Tra tutti colpisce la figura di Clara, la cameriera dal passato incerto e scorretto che scrive messaggi in versi allo stralunato Francesco. Chi è Clara?
Nel mondo reale Clara potrebbe dirsi una bipolare, nel senso che è scissa in due personalità che convivono in quel corpo pieno di appetiti ma secco come uno scheletro. Quindi è spaventata a morte solo perché ha rotto una brocca di Ester, ma non ha paura di arrampicarsi di notte sugli alberi per spiarla; è intimidita come una bambina mentre porta a tavola i piatti, ma di notte non si vergogna di farsi pagare il sesso da un ragazzotto che lancia sassi alla sua finestra. Scrive rime smielate su foglietti di carta, ma quando incontra Francesco di notte si esprime come una punkabbestia. Odia il custode perché la schiavizza, ma è gelosa fino alla rabbia quando scopre che va con un’altra donna. Non le frega niente di Franco, ma vuole scoprire che cosa gli è successo. Insomma, è una matassa di contraddizioni. E poi è una incredibile bugiarda. Forse l’unica tra tutti che riesce a salvarsi, forse. 

Uno alla volta, a eccezione del protagonista, gli attori svaniscono, se ne perdono le tracce, lasciando incompiuto lo sforzo iniziale di inquadrarli nel contesto. Ti sono sfuggiti di mano o è stata una scelta narrativa?
È stata una conseguenza di progressive scelte narrative nel corso della composizione. È un po’ come quando stai su un sentiero di montagna e sai che devi raggiungere il rifugio lì in alto (o lì in basso), e cammini fiducioso e sereno seguendo il sentiero, anche se non sei certo che ti porti a destinazione. Dopo un po’ però ti fermi, ti guardi intorno, e in una apertura tra le foglie lo vedi, il rifugio. Sta lì, poco più in alto (o in basso), e sai che è lì che devi arrivare, prima che faccia buio, ma ti accorgi che il sentiero battuto su cui stai camminando porta da un’altra parte, e allora decidi di tagliare dritto tra gli arbusti e cammini aprendoti la strada a colpi d’accetta, sempre tenendo gli occhi puntati sul rifugio, senza mai perderlo di vista. Ecco, mi è successo un po’ la stessa cosa, a un certo punto mi sono accorto che il sentiero battuto e comodo e conosciuto della narrazione in cui si dovevano chiudere tutte le linee narrative aperte e portare ogni personaggio al proprio compimento, mi avrebbe allontanato dalla meta che invece vedevo chiara davanti a me. Così ho deciso di tagliare dritto e di arrivarci direttamente attraverso la boscaglia, senza badare alle braccia piene di graffi, ai rovi che mi martoriavano le caviglie.

Francesco, il protagonista, è l’unico di cui non si perdono le tracce, ce ne descrivi i pensieri, l’aspetto, i vestiti, gli stati d’animo, con una precisione quasi morbosa, ossessiva. Francesco è ossessionato dai dettagli, anche i più irrilevanti e più si rende conto di quello che sta accadendo, più resta imprigionato in questa consapevolezza che si rivelerà letale. Perché questo annichilimento della volontà, questo rifiuto alla reazione/azione?
Annichilimento (direi volontario) della volontà, quindi debolezza scambiata ciecamente per impossibilità strutturale, o imposta, di qualsiasi slancio vitale; quindi passività, pigrizia, sottomissione al pregiudizio, pretesa di privilegi senza alcuno sforzo per guadagnarsi diritti, e poi mancanza di reattività, che è la faccia nascosta del narcisismo. Pare anche a te o sono pazzo a leggere questo elenco di pochezze come l’anamnesi esistenziale degli ultimi venti anni in Italia?

«Rimasi a guardare la pista d’erba sulla quale ci eravamo rotolati, la sagoma che i nostri corpi avevano lasciato in mezzo al campo come un calco in memoria dell’estasi, e mi venne in mente che la mia vita era così – la mia vita, la mia persona tutta – una sagoma, un calco. Nient’altro che il calco vuoto di ciò che avrei potuto fare e dire ma non avevo mai fatto e detto perché ero sempre stato in attesa di trasformazioni mai compiute». È sempre Francesco a parlare, consapevole e immobile. L’idea che l’uomo sia artefice del proprio destino sembra dunque confermata, al negativo. Che cosa ne pensi? 
Penso che la parola destino sia buona e positiva e utile se la si considera nella accezione di “destinazione”, di “direzione verso”; se invece la si intende come una predeterminazione, quindi come un susseguirsi di eventi imposti dall’alto, dal di fuori, allora credo sia una parola vuota, inutile, anzi dannosa, perché non c’è alcuna divinità sopra di noi a calare gabbie sulla nostra esistenza. Detto questo, penso che la passività esistenziale sia il risultato finale di una dialettica in cui uno dei due elementi necessari è l’“azione” che potremmo chiamare frenante, ovvero che non spinge in avanti ma assomiglia invece al gesto “attivo” del piede di schiacciare il freno, non perché altrimenti si andrebbe a sbattere, ma per paura delle strade sconosciute.

«Nessun male si compie di proposito, finché non ti ritrovi a farlo». Questa frase sembra riassumere il significato del tuo libro: il male è ineluttabile e sebbene se ne avverta la presenza e la minaccia, non si riesce ad annientarlo. È di questo che hai voluto scrivere? 
Direi di sì, ma non mi premeva più di tanto sostenere che è impossibile annientarlo, il male – che non è necessariamente sterminio e omicidio e rogo, e non è neanche inferno e punizione e satana o tutte quelle idiozie cattoliche, ma potrebbe considerarsi semplicemente come un istinto di annichilimento, quindi anche l’indifferenza è “male” – non mi premeva, dicevo, sostenere che è impossibile annientarlo, quanto evidenziare la sua presenza, rendere manifesto il fatto che il male è qualcosa con la lettera minuscola, e può assumere varie forme. È una cosa con cui tutti noi dobbiamo fare i conti, perché è stupido pensare che ci venga tolto dal battesimo, ma più stupido ancora è pensare che ce l’abbiamo incorporato dalla nascita, perché ciò che c’è di malvagio e perverso nell’uomo è soprattutto l’incapacità, o l’indifferenza, di reagire al caos, alla spinta verso l’annichilimento, verso la distruzione.

Sempre a proposito del male, Hanna Arendt diceva che bisogna capirlo per avere gli strumenti per combatterlo. Primo Levi, pensando ad Auschwitz, sosteneva al contrario che il male non va capito, perché così facendo si finirebbe per giustificarlo. Ho semplificato ovviamente, ma tu che cosa ne pensi?
Penso che evitare di capire il male (come pure il bene, come ogni altra cosa) per paura di giustificarlo e quindi in qualche modo di diventarne complici sia un’idiozia, e non sapevo che lo avesse detto Primo Levi. Capire non è certo identificarsi, ma anzi è il primo passo, necessario, verso un distacco. Quindi sono d’accordo con Hanna Arendt, ma mi viene in mente anche questo: capire le cose in modo esclusivamente razionale è solo parte di una comprensione più globale, ed è ciò che cercano di fare i filosofi: costruiscono i loro discorsi razionali sulla realtà, e non a caso per secoli la filosofia è stata quasi esclusivamente gnoseologia. C’è però tutta un’altra parte di esistenza che ha a che fare con una forma di conoscenza che è un sentire e parla la lingua delle sensazioni, delle emozioni, delle pulsioni, dei sentimenti, dei sogni. A mio avviso è la nuvola dalla quale la letteratura fa cadere la sua pioggia salvifica sul mondo e sugli uomini. Questo però, mentre scrivevo Il casale, non lo sapevo ancora; c’è da considerare che a quei tempi, seppure con un istinto di ribellione, avevo appena terminato i miei studi di filosofia all’università. 

Il protagonista del romanzo si chiama Francesco come te. Omonimia casuale o identificazione?
Casuale, direi. Forse in tutto il libro il nome di Francesco viene pronunciato tre volte, e siccome in fase di composizione era una cosa a cui proprio non pensavo, è rimasto così: sarebbe stato più complicato cambiarlo. Però avevo in mente i romanzi di Gombrowicz, soprattutto Pornografia, e lì il suo protagonista si chiama Witold, come l’autore, e non posso negare che mi piacesse l’idea di avere con lui un’assonanza, anche se così piccola e banale.

Che cos’è per te la scrittura? Necessità, vocazione, catarsi?
È sempre stata un desiderio, fortissimo, il desiderio di comporre pagine e di vederle compiute, di percepire la compiutezza di un pensiero, di una immagine, e passare il tempo a rincorrerla con le parole, girando e rigirando le frasi finché puoi dire a te stesso “ecco, l’ho presa”, oppure “più vicino di così non posso andare”; poi vedere i personaggi e la storia prendere forma, sentire l’emozione che monta quando percepisci che ciò che hai scritto ti appartiene profondamente. Scrivere è sempre stato un desiderio forte almeno quanto quello della lettura, che è invece un abbandonarsi, un immergersi nei personaggi e nelle atmosfere distanti, vivere in parallelo con esistenze differenti che però sembrano parlare con una voce così familiare. E poi è una realizzazione. Non so se domani continuerò a pensarla allo stesso modo, ma adesso posso dire con certezza che se qualche forma di vita aliena portasse sulla terra un dispositivo che paralizza nell’uomo la capacità di immaginare e di fantasticare e di scrivere e mi usasse come cavia dopo avermi rapito, molto probabilmente, una volta rilasciato dalla nave aliena in un campo di grano pieno di strani cerchi, non sarei più io, perché avrei perso il nucleo della mia identità, il cuore pulsante del mio stare al mondo.

Se è vero che prima di essere uno scrittore si è un lettore, quali sono i libri della tua vita?
Ti dico alcuni libri (mi limito ai romanzi) che in qualche modo hanno dato forma alla mia vita, in ordine cronologico. Terra di Stefano Benni: mi ha introdotto nel mondo della fantasia, lasciandomi addosso la certezza che, più che un mondo, sia un universo senza confini, in espansione. Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse: ha creato in me, mio malgrado, una scissione tra ascetismo e passionalità, formandoli nel globo del mio pensiero cosciente come due entità in antitesi che solo col tempo sono riuscito a far dialogare, ma comunque creando in me forme di pensiero che prima non c’erano. On the road di Jack Kerouac: mi ha spinto a intraprendere i primi viaggi della mia vita, mi ha spinto verso un’idea di fuga, di una vita che vada oltre, e ancora oggi, quando le cose vanno un po’ male, mi viene sempre in mente che potrei mettere una coperta nello zaino e incamminarmi, via, purché sia lontano. Opinioni di un clown di Heinrich Böll: mi ha svelato la natura dell’ipocrisia (ancora adesso è una delle cose che detesto di più e in cui sto più attento a non cadere) e la stupidità dell’orgoglio. I testamenti traditi di Milan Kundera: anche se non è un romanzo, mi ha insegnato cos’è il Romanzo, con la R maiuscola, e quindi ha costruito in me una base da cui ancora adesso prendono lo slancio tutti i miei salti per cercare, attraverso le cose che scrivo, di acchiappare qualcosa che assomigli anche solo un po’ alla Letteratura, con la L maiuscola. Infine Pornografia di Witold Gombrowicz. La mia esperienza di lettura con questo romanzo è stata la seguente: ho aperto una porta e, a una prima occhiata, ho trovato un luogo totalmente estraneo. Così ci sono entrato come si entra nei libri, con curiosità, e ho cominciato a camminare guardandomi attorno. A un certo punto, con infinito stupore, ho scoperto che era casa mia! Così ho imparato che se volevo conoscerla davvero, casa mia – il mio spazio interiore – dovevo gettare lo sguardo oltre gli alberi e andarla a cercare in luoghi distanti e sconosciuti dove solo avrei potuto, a un certo punto, magari voltandomi per sbaglio, riconoscerla.

Frequenti le librerie? Qual è la libreria ideale?
Sì, certo, la libreria è il posto dove voglio andare ogni volta che esco di casa per una passeggiata. È un po’ come uscire di casa per tornare a casa.
Mi chiedi qual è la libreria ideale. Mi viene in mente una immagine, che non so se sia abbastanza comprensibile, ma te la dico lo stesso: immagino me stesso davanti a una libreria immensa, e io sono vestito di viola, o di rosso, e sugli scaffali c’è un libro diverso per ognuno dei colori che esistono nel mondo, tranne uno, il viola, o il rosso, tranne il colore che ho addosso. Non so che cosa significa, forse niente, ma è suggestiva, soprattutto se ci metti uno sfondo bianco senza confini come lo spazio della realtà virtuale simulata per esercitarsi al combattimento nel film Matrix.

Che cosa diresti al Lettore Zero, quello che non ha mai letto un libro e ne va anche orgoglioso?
Di entrare in una libreria, anzi in una biblioteca, e prendere un libro a caso, seguendo solo il proprio sentire, e cominciare a leggerlo. Se è così vivo e fortunato da appassionarsi, allora certamente vedrà quel libro come l’inizio di una storia di cui troverà naturale seguire l’evoluzione, (come in una storia d’amore) perché in ogni libro ci sarà la mollica di pane che gli permetterà di trovare il libro successivo.  

Cosa c’è da leggere o ci dovrebbe essere sul tuo comodino?
Da leggere (da finire di leggere) c’è 2666 di Bolano, poi Maus, il graphic novel di Spiegelman, poi Diario di una scrittrice di Virginia Woolf, poi Figli dello stesso padre di Romana Petri, per ultimo E poi siamo arrivati alla fine di Joshua Ferris.
Invece ci dovrebbero essere i classici italiani che non ho mai letto, Pavese, Ortese, Morante e anche i giganti di cui ho sempre letto poco e male, perché pieno di spavento per la mole delle opere: Tolstoj, Proust, Dostoevskij.

Quali sono i tuoi progetti per l’immediato futuro?
Lavoro intensamente al nuovo romanzo, che è molto diverso da Il casale. È scritto in una terza persona fortemente focalizzata, ha come protagonista un bambino molto piccolo e molto solo, è ambientato in un tempo e in un luogo senza tempo e senza luogo, perché appartengono in uguale misura all’immaginazione e alla realtà; tratta delle paure, del buio e del vuoto, dell’abbandono, della fragilità dei sentimenti, dell’interiorità dei bambini che è esplosione di immagini e fantasia, e di come per gli adulti sia facile sopprimerla, perché non la vedono, non la conoscono e non la vogliono e anzi la sentono come una minaccia. La lingua che ho cercato e, con molta fatica, spero di aver trovato è una lingua che potrebbe dirsi “sensoriale”, e tutto il romanzo può dirsi “un romanzo della sensibilità”. La storia, che è molto semplice e lineare e anche un po’ nera, la leggerete – spero che vogliate farlo – quando uscirà!


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