Intervista di Luisa Badolato
Cosa le ha ispirato l’idea di coniugare nella sua ultima opera la forma del romanzo di genere giallo con quella del romanzo psicologico?
Esiste tutta una solida tradizione noir, soprattutto francese, in cui le due cose non solo non si escludono, ma necessitano l’una dell’altra. Attenzione però, perché La notte alle mie spalle ha il ritmo e l’asciuttezza di una narrazione di genere, ma racconta uno di quei delitti di cui il giallo non si occupa, in un modo in cui un giallo non potrebbe fare. Quindi è quanto di più lontano da un giallo odierno si possa immaginare.
Come dice lei stesso nei suoi corsi di scrittura, è difficile cercare la semplicità nella narrativa. È soddisfatto di come ci è riuscito in La notte alle mie spalle o c’è qualcosa che cambierebbe sotto qualsiasi aspetto?
Soddisfattissimo. Di più, orgoglioso. Perché ascolto i lettori e sento che trovano il loro spazio fra le parole, entrano nel libro, lo fanno proprio. È un romanzo che li prende e li porta via, senza mai cercare di stupirli con funambolismi, effettacci o digressioni fini a sé stesse.
Cosa le ha suggerito la storia narrata nel romanzo? La lettura di un autore, un episodio della sua vita, o è un progetto che ha studiato a tavolino?
Un racconto di mia sorella. Di come le era arrivata in obitorio una giovane donna massacrata di botte dal compagno. «Non ha potuto donare neppure le cornee» mi ha detto, per farmi capire come era ridotta. Quelle parole mi hanno dato il senso di quanto può essere selvaggia e distruttiva la violenza che si consuma dentro la famiglia.
Qual è stato il rapporto con il suo editor durante la revisione del romanzo?
Claudio Ceciarelli ha fatto quello che solo i bravi editor sanno fare. E cioè non solo capire in profondità quello che hai scritto, ma intuire altrettanto bene quello che puoi ancora scrivere per arrivare ad avere il romanzo che davvero volevi.
Pensa che la collocazione del romanzo nella collana “Dal mondo” sia una buona scelta? Sente delle affinità con gli altri autori?
L’affinità che sento è un editore che si permette il lusso di pubblicare i libri che ama.
Pensa che ci sia una speranza di riscatto per Furio Guerri, o che da sempre viva un destino già scritto?
Un riscatto comincia sempre con la consapevolezza piena di quello che si è fatto. Ma d’altra parte questa consapevolezza dice che uccidendo una persona si è provocato un danno irreparabile. Non so allora se un vero riscatto sia possibile, perché non si può ripagare qualcosa di inestimabile. So che però Furio è egualmente capace di compiere un miracolo. Ma, ovviamente, non dico quale sia.
Se lei fosse il lettore del suo romanzo, che tipo di sentimento le ispirerebbe?
Una disperata tenerezza.
Ha già detto in un’intervista che non ha preferenza per nessuno dei suoi romanzi visto che li considera come dei figli. Ma ce ne è uno in cui si riconosce maggiormente?
Il romanzo più recente mi assomiglia sempre più degli altri, è logico. Ma anche questo romanzo un giorno diventerà per me il documento di come ero in un certo periodo della mia vita. Un pezzo di me, la tappa di un percorso.
Cosa ne pensa del self-publishing?
Viene spacciato come la terra promessa per milioni di aspiranti scrittori rifiutati dall’editoria ufficiale, ma è una balla. Una volta che hai tutte le tue belle copie stampate, ti accorgerai come è difficile far conoscere in giro il tuo capolavoro. E sarai punto e a capo. A combattere contro milioni di altri aspiranti scrittori e l’indifferenza dei tuoi simili. Da solo.
E dell’e-book?
Penso che fra qualche anno tutti leggeremo e-book, e poi compreremo in versione cartacea solo quei romanzi che abbiamo amato davvero. Perché, appunto, quello con il libro di carta è un rapporto erotico e quindi fisico.
Cosa fa quando non scrive?
Gioco a pallone con i miei compagni dell’Osvaldo Soriano Football Club, una squadra composta tutta di scrittori. Oppure strapazzo la mia chitarra Fender Stratocaster insieme a un gruppo di amici, il più delle volte suonando in feste dal tasso alcoolico decisamente indecoroso.