“Le liberalizzazioni che servono a poco” e “Lo sviluppo per legge”: due considerazioni dal Fatto Quotidiano

Creato il 22 ottobre 2011 da Wally26

Da: Le liberalizzazioni che servono a poco  e Lo sviluppo per legge?

Si e’ detto piu’ volte in Italia e dell’Italia che servono riforme strutturali serie per il rilancio economico (e quindi anche politico e sociale) ma fin’ora sembra che le proposte  avanzate somiglino piu’ a “riforme cosmetiche” che a serie ristrutturazioni. Inoltre si sa, una fetta di popolo reagisce alla parola “liberalizzazioni” come un vampiro in presenza dell’aglio. Non avendo ben chiari i meccanismi che muovono una sana economia, primo fra tutti una sana e robusta competizione che si otterrebbe liberalizzando il mercato e favorirebbe l’apertura di nuovi esercizi e la creazione di piccole imprese famigliari magari, e porterebbe a una maggiore offerta qualitativa ed anche a un ribasso dei prezzi di vendita…

Stefano Feltri nel primo articolo, parlando della bozza del decreto sviluppo, dice:

Alla voce “liberalizzazione di alcune attività professionali”, Romani sceglie con cura i suoi bersagli: le imprese di facchinaggio, che potranno operare con meno requisiti di quelli richiesti oggi, il commercio all’ingrosso con deposito e produzione di margarina e grassi idrogenati, dove ci sarà meno burocrazia, poi al comma 4 si annuncia l’imprescindibile “soppressione del ruolo degli stimatori e pesatori pubblici”.

Al posto delle autorizzazioni richieste oggi, per alcune professioni basterà la cosiddetta “Segnalazione certificata di inizio attività, la Scia, cosa che dovrebbe stimolare l’apertura di nuove imprese.

Cosa che dovrebbe stimolare...“, gia’ questa frase la dice lunga sulla comprensione di certi meccanismi economici. Parentesi americana: in America questo tipo di liberalizzazioni fa campare milioni di famiglie il cui successo economico risiede nella competenza e nella qualita’ del prodotto offerto dal commerciante e nella “fidelizzazione” del cliente. La famosa “meritocrazia“… Certo non avranno un impatto fondamentale nelle entrate dello Stato americano, ma tengono fuori dall’indigenza milioni di famiglie che, di conseguenza, non pesano sulle uscite dello Stato il quale non dovra’ provvedere con sussidi: vi pare poco? Detto questo, ovviamente anche qui non e’ tutto rose e fiori, nel senso che spesso per abbassare i costi del lavoro,  le piccole imprese assumono al “nero” i clandestini latino-americani: ma questo e’ un altro problema che si pensa di risolvere estendendo agli esercizi l’obbligo dell’ E-verify.

I settori beneficiati da questo alleggerimento burocratico e colpiti, forse, da una maggiore concorrenza

Colpiti forse da una maggiore concorrenza...”, ecco il tabu’ della concorrenza, quel male necessario capace di portare ricchezza e benessere nelle casse di chi sa come creare ricchezza per se’, la propria famiglia e altre famiglie a cui dara’ lavoro. Certo che la concorrenza colpira’ i settori interessati dalle liberalizzazioni, ma cio’ non e’ affatto un male. In questo modo si vanno a colpire gli interessi feudal-corporativi di certe caste agguerrite come i “tassinari romani”, il settore dell’autotrasporto e altre realta’ che si oppongono con forza alle liberalizzazioni perche’, ovviamente, dovrebbeo iniziare a garantire servizi migliori ad essere “affidabili” e crollerrebbe la “gestione mafiosa” del settore, colpito da casi di corruzione e strozzinaggio per ottenere le licenze.

Il secondo articolo, di Pierfranco Pellizzetti,  presenta invece giuste riflessioni ;

A futura memoria: ha senso trasformare – con le parole di Francesco Vella, economista dell’Università di Bologna – il “mantra della crescita” nel rapporto tra economia reale e riforma delle regole? Infatti sono ormai quasi tre lustri che si pensa di ovviare alla perdita di competitività del sistema-Italia pestando nel mortaio sempre la stessa acqua amministrativo-regolativa, come se l’eccellenza produttiva fosse solo un de cuius.

Nell’illusione che l’impresa sia un potente motore in ceppi e che, una volta liberato dai vincoli burocratici (Guido Carli li chiamava “lacci e lacciuoli”), tornerebbe immediatamente a ruggire; innovando, conquistando nuovi spazi di mercato e diffondendo benessere. 

Qualcosa a cavallo tra la mano invisibile, il laissez fairee l’attesa della manna dal cielo, per cui allo sviluppo competitivo (e il tipo di società che ne consegue per tutti noi) sarebbero titolati a pensarci solo padroncini e manager… Ma le cose non stanno così. Come dimostra il fatto che si continua a inseguire questa falsa rappresentazione senza ottenere svolte degne di questo nome.

Già nel 1998 il Testo unico della finanza (Tuf) aveva introdotto importanti novità in materia di governance societaria allo scopo di rimuovere impedimenti alla crescita delle piccole imprese allargando i perimetri della borsa e facilitandone l’accesso. Con risultati pressoché nulli. Data la semplice ragione che le imprese di taglia minima non crescono per ragioni sociali e culturali, riassumibili nel familismo: stanze di compensazione dei rapporti proprietari tra parenti che recalcitrano ad accettare le regole di trasparenza imposte dalla quotazione. Dopo questo titanico sforzo regolamentativo la situazione del nostro tessuto produttivo non si è modificata di un capello. E il declino non ha subito battute d’arresto. Per una semplice ragione: l’astrattezza di tali impostazioni. Qui non si vuol dire – figuriamoci! – che le regole non servano, ma il cuore del problema batte altrove. Ossia nella tangibile materialità di pratiche finalizzate a creare beni e servizi che interessino, che siano appetibili.

Il problema è che l’Italia ha smarrito da tempo la cognizione di ciò che sa e vuole fare, mentre perdevamo tutti i treni che si potevano agganciare con una politica attiva per l’impresa. Siamo ancora manifatturieri, ma ormai puntiamo solo sull’abbattimento dei costi. Siamo un mercato per la logistica, ma sono i grandi gruppi stranieri a menare la danza. Siamo un polo turistico di tutto rilievo, ma gestendo il patrimonio paesaggistico ed artistico come una rendita stiamo perdendo posizioni. Scommettiamo sull’hi-tech, ma in maniera scoordinata e senza strategie.

Il risultato è che non abbiamo più nicchie merceologiche che ci assicurino vantaggi competitivi. E nessuno le cerca. Per questo – a futura memoria – bisognerebbe mettere in campo una politica di indirizzo. Perché il dottrinarismo economico e il formalismo giuridico vengono dopo la politica. E la politica poggia sulle spalle della società.  Una consapevolezza che ha molto a che fare con la qualità democratica

Ps: Qualcuno mi obietterà che il problema non è lo sviluppo (con tutte le precisazioni al riguardo) ma la Decrescita. Per i fan nostrani di Serge Latouche, non so se nutrire più tenerezza o irritazione: non capite che senza creazione di ricchezza avalliamo un’operazione reazionaria, in cui si bloccano gli accessi a migliori condizioni di vita per chi sta in basso, cristallizzando i vigenti svantaggi/privilegi?

Del resto, se non offriremo prospettive credibili, l’unica sirena per chi cerca un’opportunità di avanzamento sociale resterà quella del neoliberismo con le sue macellerie sociali, dello sviluppismo incontrollato e dei consumi drogati.

Non potrei essere piu’ d’accordo su questi due ultimi punti. L’Italia non uscira’ dalla crisi grazie all’attuazione di utopie reazionarie di tipo socialista: anzi se prendera’ quella strada possiamo dire bye-bye ad un futuro migliore e prepararci al peggio.


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