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Le linee di Cristina – Intervista alla disegnatrice Cristina Mormile

Creato il 14 aprile 2015 da Wsf

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Benvenuta su Words Social forum, Cristina

Grazie mille!

“Ricordi i tuoi primi passi nel mondo del disegno? Cosa ti ha spinto a diventare una fumettista?”

Chi non ricorda i primi passi? Passi, poi… pare d’andare a gattoni, ma credo sia normale per qualsiasi “gavetta”. Ero appena uscita dalla Scuola del Fumetto e per trovare lavoro ho fatto il giro di tutte le agenzie pubblicitarie di Milano. A piedi. Alla fine ho trovato uno studio a Sesto San Giovanni e lì ho cominciato a farmi le ossa. 480 tavole in stile umoristico per la Francia, che non era proprio quello che volevo fare, ma sempre disegno era. Facevo notti bianche e mi svegliavo con la faccia incollata alla tavola. Ogni volta che invocavo l’idea di propormi come autrice mi dicevano che ero piccola, che disegnavo male, che mi avrebbero fatto a brandelli. La cosa in sé non era invitante, ma decisi di provarci lo stesso ed inviai la sinossi d’una storia breve a tutti gli editori francesi che trovavo su internet. Ricevetti due appuntamenti per il festival d’ Angouleme. Ci andai con la paura della mia vita. Quattordici ore d’auto con gente più brava di me e l’incubo di prendere tanti pesci in faccia. Tornai a casa con due contratti, e la sensazione che forse c’era speranza. Poi da lì non ho più smesso. Lavoro da dieci anni per Soleil, una casa editrice francese che ho avuto modo d’apprezzare anno dopo anno. E il meglio? Alla faccia di chi dice che sognare non è dato a tutti, sono felice.

Cosa mi ha spinto a diventare fumettista? Che nel fumetto hai una media di 10 immagini per pagina. Per ogni immagine un’inquadratura. L’insieme delle inquadrature a formare un “tutto” armonico, indipendente e al contempo in armonia con la pagina a lato. Ed un’inquadratura dev’essere volta a rendere un gesto, o un’espressione, con una sola immagine. Non hai un secondo per esprimerti, o un minuto, come al cinema. Non puoi vedere lo svolgersi del gesto. Devi bloccare l’immagine, come avessi un telecomando e un videoregistratore. Scomporre il gesto. E prendere il momento in cui è più comprensibile e dinamico. Penso sia come la ricerca dell’equilibrio per un ginnasta. E dato che disegno da quando sono piccolissima, e avendo scoperto a sedici anni che il fumetto non è un albo magico che ti cade tra le mani, creato da una qualche divinità nascosta nell’edicola, ma piuttosto un modo di raccontare storie con sequenze d’immagini (in più retribuito come un normale lavoro), la scelta è venuta da sé.

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“Il primo dei consigli di Moebius sul fare fumetto é: “Quando ci si appresta a disegnare, bisogna svuotarsi dei sentimenti profondi come odio, felicità, ambizione, ecc.”. Per te é così? Le emozioni devono essere necessariamente azzerate quando si disegna?

Lo confesso. Per me sì. Per altri no. A ciascuno il suo microcosmo. Per me il silenzio e l’assenza di emozioni forti sono la regola di base, soprattutto nella prima fase del lavoro. Il telefono non deve suonare. È come fare una gara d’apnea. Quando cominci a scendere non devi esitare, non devi farti prendere dal panico. Diventi un tutt’uno coi tuoi personaggi, e cominci a pensare “è arrabbiata, è nervosa, è triste, le hanno fatto un torto e ora… questo è cattivo, deve starmi antipatico. Ma tanto.”. Tutto quello che hai intorno scompare, e quando riemergi la giornata è finita, eppure hai la sensazione di averla vissuta. Più nelle vesti di un tuo personaggio che come te stessa. I sentimenti profondi modificano la natura dei personaggi della storia. Loro non devono essere noi. A meno che non si voglia realizzare una biografia a fumetti, beninteso. Mi piace pensare che in ogni personaggio ci sia un frammento di me, uno solo, che basta a tenerlo in piedi, a farlo muovere, ed il resto lo riempio dell’impressione di essere qualcun altro… una sorta di gioco d’attore, ma senza avere un palco con la tribuna ricolma di spettatori. Sono al riparo dai riflettori, ma posso esprimermi. Quale teatro migliore, per essere me stessa?

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“Che cos’é per te il fumetto?”

La mia vita, nonché la mia più assoluta forma di fedeltà. Il mio modo di esistere cercando di non pestare per forza i piedi altrui, l’idea di starmene tranquilla in un angolo e creare una bolla gigante e di viverci dentro, dimenticare la rabbia al di là della porta e respirare a pieni polmoni universi diversi. Niente di meno. Niente di più. Ho sempre pensato che le persone cambiassero, volubili come i sentimenti. Il lavoro che scegli invece, è quello che resta. Cresce con te e se non lo abbandoni tu, non ti lascia mai.

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“Fare fumetti é passione, anima, sangue, ma anche grande rigore. Una scelta di vita votata alla sublimazione della fatica, come si svolge giornalmente la vita di un fumettista?”

Se il postino non bussa, se nessun amico o vicino ti si introduce in casa a sorpresa, se non devi andare fino alla banca per pagare una tassa, o se non ti si è strappato il solo jeans che avevi e lo devi ricomprare seduta stante, generalmente lavoro dalle 7 alle 22. Fermandomi per i pasti. Ergo, 15 ore giornaliere. Ovvio che devo vivere, che se non esco poi gli amici mi danno della stronza, dell’asociale, o della snobbista. Che le tasse non si pagano da sé. Che l’auto ne ha sempre una. Vien da sé che le giornate reali si basano più sulle 10 ore di lavoro. Nessun cartellino da timbrare. È un mero oscillare tra utopia e buonsenso. E considerando quanto le due cose stridano al solo avvicinarsi, a volte il tutto si risolve con una notte bianca.

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“Kirkner definiva l’aspetto grafico in questo modo:“la volontà che spinge l’artista verso l’opera grafica è forse in parte il desiderio di plasmare e fissare definitivamente la forma, originariamente libera, del disegno”. Cos’é per te l’aspetto grafico?”

Per me è la linea che prende forma e vita. E non serve essere manierista per renderla tridimensionale. Serve “sentirla”, anche se a dirla così pare riduttivo, quasi sciocco. È come la sensazione che provi chiudendo gli occhi e ricreando dietro la palpebra un’immagine che è nei tuoi ricordi. Il nero (il bianco del foglio, nel mio caso) si trasforma in immagine, prima piatta, poi più profonda. L’aspetto grafico è emozione. Qualsiasi forma esso assuma.

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“E’ difficile per un autore creare e disegnare le proprie storie, molto più spesso invece si ha uno sceneggiatore con cui collaborare nella creazione di un progetto editoriale. Come ci si avvicina al personaggio da rappresentare fino a renderlo proprio?”

Non è che sia difficile. È una scelta. Sia finanziaria che personale. Creare in primis una storia vuol dire raccontare un pezzo di sé stessi e moltiplicare il tempo di lavorazione. Disegnare la storia d’altri è divorare tutto quello che non si conosce. Per avvicinarmi al personaggio parlo col mio sceneggiatore. A volte per ore intere. Provo a vedere il personaggio coi suoi occhi, a capirne il carattere, gli obiettivi, le emozioni. Disegnarlo e crearlo dal nulla è la cosa più difficile. Spesso ho solo un’età, il colore dei capelli, o un vestito caratteristico, e da lì parto, e viaggio. Disegno e ridisegno, invio allo sceneggiatore fino a cadere nel punto comune, che sarà il personaggio definitivo. Poi il bello è viverlo vignetta dopo vignetta. Osservarlo emozionarsi, arrabbiarsi, inarcare un sopracciglio, essere lui prima che te stesso. Alla fine il mio sceneggiatore è in primis un grande amico. Ogni volta che cominciamo e finiamo una storia, o creiamo in diretta un personaggio lavorando nella stessa stanza, ci ritroviamo emozionati come bimbi piccoli.

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“La tua storia personale ed artistica ti ha portato lontano dall’editoria italiana. Quali sono per te le differenze tra il mondo editoriale estero franco/belga e quello italiano?”

In due parole, la differenza tra i due mercati sta nell’impaginazione e nella libertà. In Italia, disponi di una media di 6 vignette per un formato più piccolo stampato, spesso in bianco e nero. In Francia, hai invece una media di 10/12 vignette per pagina ed un formato cartonato più grande, ed a colori. In Italia, una griglia più rigida, ottimo esercizio per inquadrare tenendo una base obbligatoria. In Francia, per me, l’assoluta libertà. Deformo vignette, faccio splash-page, o pagine con 14 vignette, 16 vignette se voglio esagerare. Ogni disegnatore ha necessità diverse. Io trovo nel fumetto francese tutto quello che cerco. Resto aperta a qualsiasi esperienza in altro mercato, perché affascinata da ogni tipo di sfida differente. Cosa dà e cosa toglie creare? Da la sensazione di viaggiare senza alzarsi dalla sedia. Come quando leggi un libro e sogni ad occhi aperti. Toglie energia. Ma il sonno, grazie al cielo, la ricrea all’infinito.

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“Come nasce tecnicamente un tuo lavoro?”

Tecnicamente si legge la sceneggiatura che t’inviano e si parte dallo story-board in formato A4, uno schizzo abbozzato delle tue intenzioni. Scegli la grandezza e la disposizione delle vignette, a grandi linee tracci lo spazio occupato dai personaggi e la loro gestualità. Poi passi alle matite in formato A3. Definisci gli ambienti, i costumi, le espressioni. I personaggi prendono forma e ti guardano dal foglio. In ultimo, la fase dell’inchiostrazione, il mio grande amore. Puoi scegliere pennino, pennello, pennarello. Ce n’è per tutti i gusti. E dai profondità alle matite, le fai tue. Nessuno ha la stessa inchiostrazione. È come una firma. Lo stesso disegno inchiostrato da dieci persone diverse, sarà sempre diverso. Ciliegina sulla torta, scansioni le tavole e le invii in casa editrice, poi al colorista. E quando vedi un colore non tuo sulle tavole, ti ritrovi ammirata. Quel che preferisco è un’equipe solida, da non abbandonare. Un colorista che sappia il fatto suo, e lo sceneggiatore che mi ha scelta e che ho scelto a mia volta. Un caro amico ama ripetermi che questo lavoro si può fare senza essere – scusate il termine ma suona bene – “puttane del sistema”. Ed è vero. 

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“Qual é per te l’elemento fondamentale nella creazione di un fumetto? La sceneggiatura, la prospettiva, l’anatomia…?”

L’armonia. Separare gli elementi che hai citato sarebbe come cercare di scomporre la regola aurea. È tutto un insieme. Gli ambienti non stanno in piedi senza prospettiva, i personaggi non vivono senza ambienti, le espressioni non esistono senza personaggi. È come una catena di produzione. Il prodotto finito è un moltiplicarsi di fattori. Più ne aggiungi, più l’armonia si completa. Più impari a conoscerti come persona, più la consapevolezza del disegno aumenta.

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“Eden Killer, Western Walley, Samurai Légendes ad oggi il tuo capolavoro massimo. A quale fumetto ti senti più legata sotto un profilo emozionale e lavorativo?”

Senza dubbio Samurai Légendes, perché ha segnato una svolta. Lavorativamente ed emozionalmente, è il progetto in cui ho investito tutto. All’inizio ci credevo da sola, poi ci abbiamo creduto in due: ora ci credono in molti, ed i lettori sono la scoperta più bella. La più gratificante, al di là della ricerca grafica personale. Pensare che il mio lavoro possa essere su più di 10.000 librerie mi toglie il fiato. Cerco di immaginare come sia riunire 10.000 persone in piazza ed ho i brividi. Ora mi rimetto in discussione ad ogni pagina, e spero solo di migliorarmi senza mai smettere di lavorare per la Francia.

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Nel tuo passato c’é stato anche un periodo d’insegnamento nel museo del fumetto di Bruxelles. Che ricordo hai di quel periodo?”

Un periodo splendido, fatto di allievi giovani, motivati. Uscivo dall’aula senza sapere chi avesse insegnato di più all’altro. Io insegnavo la tecnica, loro mi insegnavano a respirare, sorridere e socializzare e ad apprezzare un paese che non era il mio.

In origine ero timidissima, e dubitavo molto del mio francese. Con loro le giornate erano barzellette costellate di passioni comuni. Come vivere un anno in un mese. Un’esperienza ricchissima. Ricordo una bimba – e non farò nomi, non credo d’averne il diritto – che stava muta e non disegnava.

Quando le ho chiesto cosa avesse, mi ha risposto con un semplice “non so disegnare”.

E mano a mano che le spiegavo che tutti sappiamo disegnare, che poteva inventare una storia a piacere, con personaggi solo suoi, la vedevo sgranare gli occhi ammirata.

“Ma non posso usare i miei  personaggi…”, ha ribattuto.

“E perché?” “Perché sono mostruosi.”

“Ma a te piacciono?”

“Sì.”

“Allora disegnali. Io sono qui per aiutarti, non per fermarti.”

Nella settimana seguente la bimba ha lavorato con entusiasmo, e ha realizzato quattro pagine in una settimana. Per me, un piacere immenso.

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“Cosa consiglieresti a coloro i quali hanno desiderio di entrare nel mondo dell’editoria come sceneggiatori o fumettisti?”

Smettere di credere che sia tutta una questione di fortuna. Partire provvisti di tenacia, passione, ricordarsi che le critiche non sono sempre oro colato, ma nemmeno carta igienica, e rimboccarsi le maniche. E se si riceve uno schiaffo morale, non perdere giorni interi a massaggiarsi le guance, ma rimettersi al tavolo e continuare, perché il lavoro paga. Sempre.

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“Puoi anticiparci qualcosa sui tuoi progetti futuri?”

Certo. Al momento lavoro sul tomo 10 della serie “Samurai”. Poi sarà la volta del tomo 4 di Samurai Légendes. Sto anche lavorando ad una storia per un Dylan Dog color fest, ma a causa di tempistiche sovrapposte, devo dapprima concludere il tomo 10 di Samurai. Spero che i lettori apprezzino e mi diano modo di continuare entrambe le serie di Samurai e Samurai Lègendes. Amo l’universo giapponese e non voglio abbandonarlo tanto presto. Non posso dire di più, un po’ per scaramanzia, un po’ per correttezza contrattuale. Ma vi ringrazio per quest’intervista.

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(Foto di: Roberto Irace – Disegni di: Cristina Mormile)

All images and materials are copyright protected and are the property of Roberto Irace and Cristina Mormile

Grazie Cristina

Grazie a te. Grazie a voi.

Christian Humouda


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