Le liste, le sbandate, e Woody Allen a lavoro

Creato il 15 ottobre 2010 da Lacapa

Ero in seconda media, ed ero una bambina bruttissima. Ve l’ho detto più volte, no?, che la bellezza non è mai stata il mio punto forte. Posso risultare simpatica, ogni tanto, sì; posso sembrare (attenzione, sembrare) intelligente, con un po’ di fortuna; se proprio uno ne capisce poco si mette a pensare che sono affascinante, ma poi arrivano gli amici, lo fraccano di mazzate, e allora quello torna sulla retta via. Che poi, è così adesso, ma da piccola era ancora peggio.

C’è un detto secondo il quale avere avuto un’adolescenza da sfigati ti rende un adulto più in gamba degli altri. Quello che sto per raccontarvi lo smentisce.

Ricominciamo: ero in seconda media, ed ero una bambina bruttissima. Inoltre, non avevo ancora il vizio che ho adesso di andarmi a invischiare con quelli almeno dieci anni più grandi di me, quindi mi piacevano i miei coetanei, e i coetanei sanno essere cattivissimi. Siccome covavo già allora le insicurezze che ancora adesso mi porto dietro, facevo finta di essere aggressiva, mi divertivo a giocare con le figurine con i maschi e battevo chiunque a Tekken 3 e Crash Team Racing.

E avevo una cotta. Lui era un anno più piccolo di me, aveva i capelli biondi, due grandissimi occhi blu, un apparecchio ai denti che gli copriva metà faccia e due orecchie a sventola che Dumbo avrebbe sofferto di complessi d’inferiorità. Per di più, era timido come non ne ho mai conosciuti, e quando mi salutava diventava rosso come un’anguria e scappava a chiudersi in classe.

Un giorno, un mio compagno di classe mi consegnò una lettera supersegreta. “Ti vuoi mettere con me? Sì / No”. Ah, la profondità! Ah, il romanticismo! Ah, l’amore! Ah, ci saremmo messi insieme, poi ci saremmo sposati, avremmo avuto tanti figli e avremmo ricordato il giorno in cui io avevo messo una X su quel “Sì” come il giorno più felice della nostra vita!

Gli feci recapitare la mia risposta affermativa, e disegnai su quel foglio a quadri strappato dal quaderno un cuoricino con la penna rossa, la Bic, quella che non si cancellava, a imperitura memoria della nostra unione.

Siccome eravamo due bambini per bene, le uniche occasioni durante le quali potevamo dar sfogo al nostro amore le ricavavamo durante la ricreazione. Suonava la campanella, ed entrambi scattavamo fuori dalla porta delle rispettive aule e ci appostavamo esattamente a metà strada tra la porta dell’una e quella dell’altra, nel corridoio. Ci guardavamo, ci salutavamo e poi ci appoggiavamo al muro, con le spalle ben aderenti alla parete, fissando quella davanti a noi, senza dire una parola, purpurei per l’imbarazzo.

«Com’è andata oggi?», rompevo il ghiaccio io.

«Mh», rispondeva lui, approfondendo i concetti con lievissime, quasi impercettibili, torsioni del collo.

E poi silenzio. Quindici lunghissimi minuti di niente. Non parlavamo, non ci guardavamo, non ci spostavamo. Poggiati al corridoio, attenti alle screpolature dell’intonaco del muro davanti, con i volti incendiati e la testa che galleggiava per aria.

Dopo due lunghissimi giorni di questa terribile vita coniugale, io ho deciso che era giunto il momento di svoltare, di migliorare la situazione. Non volevo essere una di quelle mogli depresse che aspetta solo di chiamare l’idraulico o il giardiniere. In più, ero assolutamente certa che il mutismo del mio lui non fosse indice di stupidità, bensì di troppo amore. Sapevo che se avessi trovato gli argomenti giusti, sarei riuscita a sbloccarlo e pure a me le parole sarebbero venute di conseguenza, ché problemi a parlare non ne ho avuti mai.

Così, presi coraggio passai l’intera lezione di storia a consultarmi con la mia compagna di banco. «Di che cosa possiamo parlare?», le chiedevo, giacché lei era una bambina saggia, prendeva l’autobus e del mondo ne sapeva.

Stilammo una lista. Avevo un foglio di carta con un elenco numerato di ben dieci punti, tre dei quali erano, nell’ordine: la terribile professoressa di storia dell’arte che avevamo in comune, la bruttissima pettinatura della terribile professoressa di storia dell’arte che avevamo in comune, quella volta che alla terribile professoressa di storia dell’arte che avevamo in comune scappava la pipì ed è corsa in bagno senza neanche finire l’appello.

C’erano anche discorsi interessanti, in mezzo: la squadra del cuore, i regali che gli sarebbe piaciuto ricevere per Natale, il lavoro che avrebbe voluto fare da grande, il suo libro preferito, il cane che avrebbe adottato e che nome gli avrebbe dato, infine l’annosa questione del nostro primo bacio, che avrebbe risolto i nostri problemi di comunicazione.

Mi presentai al nostro appuntamento in corridoio con la lista in mano e una penna.

«Non trovi che la professoressa di storia dell’arte che abbiamo in comune sia una donna terribile?» gli chiesi.

«Mh», e collo piegato verso il basso, indice di risposta affermativa.

«E non trovi che abbia una orribile pettinatura?».

«Mh», ancora risposta affermativa.

«E ti hanno raccontato di quella volta della pipì e dell’appello mancato?».

«Mh», e sorrise.

Sorrise, capite? Avevo vinto, ce l’avevo fatta. Depennai i primi tre quesiti, mi misi la lista in tasca e decisi che, da quel punto in poi, sarei potuta andare a braccio, ché tanto ogni problema era stato superato.

«Ti piacciono i cani?».

«No».

«E i libri?».

«Neanche».

«…».

«Ti lascio».

«Va bene».

Mi aveva mollata, ma non gli piacevano né i cani né i libri (e neanche l’ultimo singolo dei Gemelli DiVersi, ma quella parte della discussione l’ho evitata volutamente), quindi non era una grande perdita.

Il punto del discorso non è che ho sempre avuto pessimo gusto nella scelta degli uomini, anche da bambina. Il punto è che ho paura degli argomenti, o meglio, della mancanza di argomenti. Ho paura dei silenzi imbarazzanti di chi non ha niente da dirsi che sono diversi dai silenzi imbarazzati di chi s’è detto troppo, delle stesse opinioni che azzerano il dibattito, del niente da spartire che è diverso dal niente in comune. E così via.

Le liste non le scrivo più, ma le faccio ancora. In macchina, da sola, mi figuro intere conversazioni disastrose e poi mi spavento talmente tanto che sulla base di quelle salto gli appuntamenti; oppure la notte, prima di andare a dormire, mi metto là, sotto le coperte, osservo il soffitto e in testa chiacchiero e prendo confidenza e litigo e mi riappacifico. Lo faccio anche quando cammino, ma in quel caso è ben più grave perché parlo da sola, scoppio a ridere in mezzo alla strada e mi brillano gli occhi: sì, se lo faccio quando cammino vuol dire che mi sono presa una sbandata. Ed è uguale quando sorrido come una scema mentre lavoro: sempre di sbandata si tratta

E le sbandate sono panico e terrore, la sottoscritta che lascia il posto a Woody Allen quando è nervoso, e un sacco di altra roba che sceglie, arbitrariamente, se passare in fretta oppure no.

Niente, insomma, ci pensavo e ridacchiavo tra me e me.