Altri chiacchieravano con una sigaretta tra le dita, passando il tempo. Il sipario della notte si era aperto, dando spazio alle costellazioni che decoravano le teste di chi attendeva che un secondo sipario fatto di metallo si aprisse su quella strada che unisce la terra, l’Emilia e la luna.
Le porte si aprono e la folla entra, sedendosi sul pavimento per riprendere l’attesa. Saranno le luci nella penombra della sala che faranno percepire l’inizio di tutto.
Prima canzone: la Terra, l’Emilia, la Luna. Un Vasco Brondi che evoca altri mondi, in cui immagini scorrono nella nostra mente alla ricerca di un centro di gravità almeno momentaneo. Arriverà una cara catastrofe durante la quale le pattuglie inseguiranno le falene, le comete, mentre noi, sotto il palco gridiamo che ci fregheranno sempre. Comparirà Macbeth nella nebbia, un racconto le cui parole si trasformano in brividi che percorrono le braccia, il petto.
Salti impetuosi tra generi e sonorità, tutto sopra un palco che augurava di esser felici da fare schifo.
Dal punk al timbro avvolgente del synth attraverso i quali emergono passati di diverso tipo: dalla musica alla singola vita di ogni singolo individuo presente dentro quella sala. Un’ora e mezza in cui quel passato si lega al presente e cerca di affacciarsi a quel futuro che per quanto non chiaramente visibile è lì che aspetta. E sono storie quelle che vengono raccontate, da “I destini generali” a “Le ragazze stanno bene” passando dall’ultimo album il cui tour è dedicato a brani estratti da “Per ora noi la chiameremo felicità” come “Quando tornerai dall’estero” o “L’amore ai tempi del licenziamento dei metalmeccanici” tra miracoli economici e lunedì difettosi.