La vicenda parte da un crollo, di quelli che continuano a verificarsi regolarmente nelle nostre città, frutto dell’incuria e della più cinica speculazione. La palazzina fatiscente venuta giù con il suo carico di vittime è limitrofa ad un cantiere di Edoardo Nottola (Rod Steiger), avido e potente imprenditore edile, nonchè influente esponente politico della destra che asservisce spudoratamente la sua carica pubblica ai propri interessi privati. L’opposizione di sinistra chiede una commissione per stabilire le responsabilità dell’impresa di Nottola nel crollo, ma naturalmente tutto viene insabbiato. I compagni di partito, sotto la pressione delle opposizioni e dell’opinione pubblica, chiedono a Nottola di rinunciare alla candidatura per le imminenti nuove elezioni, ma l’imprenditore rilancia, chiedendo l’assessorato all’edilizia per meglio poter curare il proprio conflitto d’interessi. Di fronte al muro del suo partito, Nottola decide di candidarsi e vincere con il centro, mettendo in questo modo la destra in minoranza. Ottenuto l’assessorato, lo spregiudicato costruttore può beatamente inaugurare la sua faraonica speculazione, col beneplacito di tutte le autorità e la benedizione episcopale.
La regia di Rosi non concede nulla all’intrattenimento, se non una freschezza ritmica nel montaggio. La scelta di affiancare ai due attori affermati (oltre a Steiger, Salvo Randone) imprenditori, politici e giornalisti che avevano ben presente la realtà che si intendeva rappresentare, si è rivelata efficace nel tenere lontano il rischio di ambiguità nel rapporto tra la denuncia e la sua messa in scena. Le mani sulla città più che una rivitalizzazione del Neorealismo (nonostante le indubbie ascendenze) o un’anticipazione del cinema di denuncia che, sull’esempio di Rosi, tanto seguito avrebbe avuto fino alla fine degli anni settanta, rappresenta quasi un unicum, un documentario che sfrutta la parafrasi cinematografica come cassa di risonanza, permettendosi così di non dover scendere a compromessi con le leggi dello spettacolo. A mio parere, l’unico film che gli può essere accomunato, seppure con ambientazione radicalmente diversa, è La Battaglia di Algeri girato alcuni anni dopo da Gillo Pontecorvo. Un film profetico (come non pensare a Tangentopoli davanti al coro della maggioranza in Consiglio “Abbiamo le mani pulite”, accompagnato dalla consueta gestualità partenopea?), illuminante e clinico nel mostrare senza filtri la questione tutta italiana della gestione arbitraria e clientelare del Bene pubblico.