Si tratta di una riflessione a volte puramente intellettiva, altre volte emotiva, come sostenevo in un spazio che una volta si chiamava ARPA EOLICA, e cioè quello strumento che vibra al vento rilasciando armonici. Libro e lettore si mettono a cercare una qualche forma di armonia, o disarmonia, persino uno stridore che non lasci indifferenti né l’uno né l’altro.
Così le parole che uso non sono direttamente mie ma di un attore che sta cercando suoni per il personaggio che lo abita; ma solo in parte, perché in parte utilizza la stessa lingua del libro.
Per questo cerco un coinvolgimento non adulatorio, non appiccicoso: voglio che le mie parole non esercitino alcun potere, nessuna forma di metacritica. O peggio, di metafisica. Io posso parlare per me, per come le parole mi hanno portato almeno a un centimetro lontano da me, dalla mia stasi emotiva e intellettiva.
La mia, tutto sommato, è una critica gentile che può infastidire, perché scambiata per una critica che non prende posizione – del resto mi infastidisce una critica che si pone l’obiettivo di destrutturare a tutti i costi, appellandosi a un qualche ragionamento oggettivo, mentre sarebbe più semplice e più onesto dire, per me è così, è piaciuto a me questo singolo libro, non un mucchio di libri sottoposti al taglio della stessa indefinita mannaia -.
Così posso capire chi dice che io scrivo “cosine”: si, le mie cosine, i miei atti gentili che non si appellano a nessun potere. Noi non abbiamo il compito di giudicare. Noi abbiamo il compito di consegnare alla Storia perché, l’ho già scritto, non sappiamo se i posteri consumeranno gramigna, visto che non ci sarà più grano da mangiare. Sarà bastevole, forse, il più insignificante frammento di letteratura se tutto il resto sarà andato perduto. In questo spazio non si fa un canone tirato su con violenza; in questo spazio si legge, che è un gesto che precede ogni forma di giudizio; e poi, si spera, si fanno incontri attraverso i libri. E l’incontro, per me, è già un metro di giudizio, un’occasione in cui sostare e guardarsi in faccia. Ché, in fondo, non ci dovrebbe essere un vero stacco tra la vita e la parola, tra un pensiero e il suo agire. Un poeta vero, per me, è chi si fa rispecchiare con innocenza nella propria scrittura in faccia ai potenti, ai simili, ai dissimili, a Caino, ad Abele. Un libro va accompagnato, come si accompagnano e ci accompagnano le persone.
Sebastiano Aglieco
16 febbraio 2014