Le mie letture – Betsabea di Torgny Lindgren

Da Marcofre

Quella era l’essenza dell’amore: essere oggetto dell’amore di qualcuno.

Prima di parlare di questo romanzo, avviso che la prima edizione cartacea risale al 1988 (io ho quella elettronica); non è un libro recentissimo quindi. Però dello scrittore svedese Torgny Lindgren ho scritto in passato alcune considerazioni a proposito dei suoi romanzi. Mi riferisco in particolare a Acquavite; Miele (dal quale è stato tratto anche un film: chissà quando e se lo vedremo in Italia); Il pappagallo di Mahler; Per amore della verità.

Veniamo ora a Betsabea.

Immagino che esistano delle storie che un autore deve raccontare. Perché occupano una parte consistente del suo vissuto quotidiano; sono tanto radicate nella memoria, hanno un posto così centrale nella vita, che prima o poi diventa necessario metterle su carta.

Non amo indugiare troppo sul lato personale degli autori (è falso, lo scrivo solo per darmi un tono); però Lindgren è nato e vissuto in un ambiente dove la lettura della Bibbia era la regola. Siamo quindi in una Svezia rurale, oggi distante (forse) dall’immagine che ci viene consegnata (e ricordiamoci: si tratta pur sempre di un’immagine: come sarà la realtà?). Questo romanzo racconta della storia d’amore tra re David e Betsabea. Ma come tutte le definizioni, è assurda e incompleta; l’unico modo per comprendere un romanzo è leggerlo, e una recensione per quanto accurata (e non è questo il caso), finisce col ridurre. Per esempio:

Signore, l’amore è spaventoso, più ingannatore della malvagità, esso è creato dall’angelo caduto che regna nell’abisso.

Eccoci perciò alle prese con qualcosa di più complesso. Betsabea è giovane, sposata a Uria, un guerriero del re. Costui però si invaghisce di lei; chi può impedirgli di averla? Forse Dio?
No.

Spesso un autore capace come Lindgren compie un’operazione interessante: vale a dire prende una storia molto conosciuta, oppure un luogo comune. E lo lavora con estrema perizia per ottenere qualcosa di diverso e sorprendente.

David parla con regolarità a Dio. Ma questa confidenza, avere la sua mano sul capo, e i nemici massacrati, la gloria e la ricchezza, l’harem pieno di donne e figli senza numero, non lo mette al riparo da nulla.

La santità è crudele e inumana

Ci sarebbe molto da dire sul Dio del Vecchio Testamento che sembra praticare la violenza con estrema disinvoltura, e piacere. Ma attenzione: Lindgren evita con cura di scivolare su un tale argomento. Lui racconta una storia, e sposa alla perfezione il punto di vista “semplice” di David, e di quella cultura basata sulla pastorizia (e la violenza). E ne è talmente pregna che sì, la santità può essere crudele e inumana. Se una simile affermazione può far sobbalzare qualcuno, in realtà per re David tutto è molto naturale.

Esiste in un autore un filo rosso che unisce le diverse opere? Penso di sì. Direi che in Lindgren la riflessione sulla parola, la scrittura ricorre spesso. Nel romanzo “Per non sapere né leggere né scrivere” troviamo:

La maggior parte delle sciagure del nostro tempo sono state causate dalla lettura e dalla scrittura.

Nel romanzo “La ricetta perfetta” invece il cronista locale di un quotidiano della Svezia del Nord riceve l’ordine di non scrivere più, perché:

Lei è un impostore. Un bugiardo e un falsificatore.

Quando all’inizio ho parlato della necessità di fare i conti con certe storie, di raccontarle, in parte mi riferivo anche a questo. Lindgren prima o poi nel suo lento cammino di autore, doveva incrociare il suo cammino con quello che viene considerato il Libro per antonomasia. Non per trovare la soluzione, o la risposta ai dubbi.

Il fine della scrittura era di ridurre la fugacità delle parole.

Piuttosto per tornare alla sua fonte di ispirazione, per rendere omaggio a una narrazione che comunque la si pensi, ha sempre fornito agli autori più diversi, materiale per riflettere su uomo e realtà. Perché è una narrazione che insegna l’ascolto.
Benché non ci siano in essa risposte adeguate.

(…) l’uomo è una parabola, il mare è una parabola, gli uccelli e i pesci sono parabole (…) il tuo amore per Betsabea è una parabola!

Ecco, la protagonista di questo romanzo. Una giovane donna che sembra in balia di forze superiori a lei. Ha un marito che la considera roba sua. Anche David non è affatto differente dal consorte, e può fare quello che vuole perché lei è una cosa, mentre lui è il sovrano di Israele. Quello che sfugge agli uomini della reggia, è che la donna, con la sua rassegnazione, è in grado di leggere molto bene la realtà. Di cambiarla. Sino ad arrivare a urlare:

Io sono un essere vivente! Lo spirito di Dio alberga anche in me!

Una formidabile dichiarazione di esistenza al mondo, da parte di una donna debole e sola, che porta con sé soltanto la statuina di un dio sconosciuto. È il primo passo, o quello più evidente, di un percorso che porterà questa “proprietà” a essere una persona a tutti gli effetti. Il romanzo è anche la cronaca di una crescita, di un essere che sembra solo bello e giovane. Ma col tempo rivelerà una scaltrezza formidabile.

Io credo che ogni cosa contenga qualcos’altro, disse Betsabea.

Sarebbe troppo semplice indicare come in questa frase non ci sia solo la protagonista, ma si celi anche Lindgren, e che ogni autore degno di questo nome debba essere d’accordo (almeno un po’) con questa affermazione. E questa bellissima donna non solo è capace di piegare gli uomini al suo volere, senza che se ne accorgano. Oppure se ne accorgono, ma lo accettano (suo figlio Salomone sarà il prescelto, il successore di re David).

Nel romanzo ricorre spesso la questione che nessuno, nemmeno il profeta Natan può soddisfare. Com’è Dio? Forse è pesante, e schiaccia regni e uomini. O è implacabile e spietato. È creatore, ma crea gli uomini perché siano puniti. È perfetto e buono. E un profeta non può essere di aiuto, a volte è più di ostacolo:

Ma più conoscenza noi uomini possediamo, più scrupolosi dovete essere voi profeti nelle vostre proclamazioni.

Il Dio di David sembra un abile giocatore che si svela (ricoprendo di onori chi lo ama, annientando i suoi nemici); oppure sfugge quando tutto sembra fissato e immutabile. Ora c’è, ora sembra aver abbandonato il suo prediletto. Si sacrificano animali a lui, eppure non impedisce l’iniquità, salvo poi ricorrere a una giustizia feroce (la peste), perché il popolo di Israele è stato contato.

No, il popolo è estraneo all’amore. Si può conquistare l’entusiasmo del popolo, mai il suo amore.

Betsabea celebra l’umile potenza della donna che per sopravvivere si rifiuta di accettare il suo destino di “cosa”, respinge la pretesa degli uomini di ridurla a forno per fare figli (chiederà al profeta Natan di non averne più), e rimane donna. Quindi se stessa insomma. Sente di avere un nucleo dove c’è lei e solo lei, e deve proteggerlo per non diventare come le altre mogli di David, sdentate e sfigurate da maternità senza numero. E ci riesce.

Alla fine la sua identità è talmente chiara e forte, da apparire proprio per questo “invisibile”. Perché non può essere davvero così, è solo una donna. È impossibile che sia riuscita a ottenere così tanto, pur essendo l’essere più debole del creato, quello di cui gli uomini dispongono quando ne hanno voglia. E re David che pure ha la mano di Dio sul suo capo, le riconosce un ruolo, un valore incredibile, anche se non lo rende più padre. Essi parlano. Si confrontano. Si amano.

Benché possa sembrare azzardato, oltre a lei, c’è un altro protagonista in questo romanzo che come Betsabea è ben presente, eppure invisibile. Ha un potere, ma non si riesce bene a decifrarlo e comprenderlo.

La vita è una caccia ininterrotta a Dio, le disse, al di fuori di Dio non esiste alcuna preda che abbia valore o importanza.

Come se tra Dio e donna ci fosse una sorta di bizzarro legame, mentre l’uomo appare essere, dopotutto, semplice e prevedibile.

Ringrazio la casa editrice Iperborea per la disponibilità dimostrata.

Betsabea (di Torgny Lindgren). Traduzione e introduzione di Carmen Giorgetti Cima.


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