La pioggia non aumentava. Cadeva leggera sugli uomini, sui cavalli. Le pietre scurivano. E quando la pioggia cadeva sul lago sembrava farne uscire migliaia di gocce.
Il romanzo si apre con un omicidio, su cui era stato chiamato a emettere la sentenza di colpevolezza il padre del protagonista. Anch’egli magistrato, vive in una lontana città continentale, finché viene richiamato in patria per guidare un processo contro una giovane coppia. Il reato: incesto e infanticidio.
A prima vista è solo una cronaca giudiziaria modellata su fatti e personaggi davvero accaduti ed esistiti, e ambientati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Tutto sembra facile: basterà emettere la sentenza per rimettere ogni cosa al suo posto; quello che è accaduto è frutto di ignoranza, violenza cieca, stupidità, incapacità di agire con la necessaria rapidità e durezza.
Ásmundur, il giovane giudice al suo primo processo, è persuaso di essere l’alfiere di idee in grado di rendere l’Islanda un Paese meno arretrato; il mondo cambia, il progresso in Europa fa il suo corso. Quell’isola nell’Atlantico deve abbracciare il nuovo che spazza via le tenebre della superstizione, e diventare così un paese moderno.
Questo lo scheletro del romanzo, ma quando si tratta di Vilhjálmsson c’è molto di più. C’è l’Islanda, probabilmente un mondo a parte: o ci si crede, oppure no.
Il popolo che la abita ha con la sua terra un rapporto talmente forte che è impossibile ignorarla, o relegarla in secondo piano. Nelle opere di questo autore, ma anche di Laxness (forse in misura minore), quello che accade fuori dalla finestra, su una collina; il mare o le rocce dei monti, il vento, non sono elementi secondari.
Non è la cornice, la natura islandese, bensì il quadro; e l’uomo è ridotto a semplice materia che viene plasmata dagli elementi, dalla loro energia. Una roccia in Islanda è tale solo agli occhi degli stupidi; racchiude vita. Un sogno non è il frutto dell’inconscio ma lo strumento con cui dei e creature tornano a ricordare agli uomini chi domina su quella terra. Fate e troll esistono, intervengono, magari senza fare nulla, ma anche la loro assenza di azione ha peso, e valore.
Per questa ragione è necessaria una lingua potente, un incedere lento, un’attenzione al dettaglio quasi maniacale perché ogni frammento parla, trasmette qualcosa. La cronaca giudiziaria sembra essere lo strumento per indurre il giovane protagonista, a riprendere una relazione con la sua terra, troncata anni prima. Soffocata anche, perché percepita come sciocca, ma alla fine prenderà il sopravvento.
Vilhjálmsson è un autore impegnativo, massiccio. I suoi romanzi sono incontri sul ring, e probabilmente sono così gli islandesi: quasi scaturiti da una terra ancora adesso in movimento, costretti a fare a pugni con gli dei e gli spiriti maligni, usano la parola come spada e scudo per combattere contro forze oscure, quasi mai amichevoli. E nella parola, riescono a infondere bellezza, grazia, muscoli e sangue.
“Il muschio grigio arde” non risolve, semmai svela la difficile relazione tra uomini, e natura. E se alla fine si riesce a trovare un punto d’incontro, è con gli esseri umani che tutto resta sospeso; il vero mistero è l’individuo, su cui nessun troll, fata o divinità delle rocce può qualcosa. Nemmeno un poeta; eppure, continuerà a scrivere, a illustrare la bellezza di un lago, e chissà che gli uomini non si convincano a arrendersi a essa. Invece di praticare il male.
Iperborea. (Traduzione a cura di Silvia Cosimini).