Mi trovo a mio agio nell’ombra. Nella mia fede, fedele.
Thor Vilhjálmsson ha una serie di elementi costanti cui ha sempre attinto per le sue opere (almeno quelle tradotte in lingua italiana). Non solo il suo Paese: l’Islanda, e il suo ambiente che la fretta liquida con l’aggettivo “fantastico” perché popolato di elfi, troll e creature visibili solo se lo sguardo è puro.
Sia “Il muschio grigio arde”, sia “Cantilena mattutina nell’erba” sono ambientati nel passato. Il primo tra l’Otto e il Novecento, il secondo, come questo, nel Medioevo islandese.
“La corona d’alloro” è, a differenza degli altri romanzi, più riflessivo, quasi più intimistico. Se ne “La cantilena” il protagonista affrontava un viaggio in Italia per chiedere perdono al Papa dei suoi peccati; e tornato nella sua terra, tutto precipitava per terminare tragicamente.
E se ne “Il muschio grigio arde” è un incesto e un infanticidio a innescare nel giovane magistrato chiamato a giudicare, le riflessioni su sé stesso, e il suo Paese; con questo romanzo Thor Vilhjálmsson alza la posta in gioco. Come? Prima di rispondere, qualche traccia sulla trama.
Come detto, siamo di nuovo in un periodo storico spietato, un Medioevo dominato da una violenza spaventosa; non tanto degli elementi, bensì degli essere umani. Vilhjálmsson non indugia, non ama effetti o effettacci: bastano poche parole per rendere alla perfezione il clima di opprimente instabilità che pervadeva la vita di quelle persone.
In un attimo, una sala diventa un mattatoio.
Il protagonista è un bambino cui capita una piccola fortuna: viene accolto in un monastero e strappato a un destino di miseria, ignoranza e violenza. Che comunque incontrerà nella sua vita. La sua curiosità lo porterà ad abbracciare l’arte della copiatura, sino a diventare scrivano di Sturla Sighvatsson. Sarà perciò testimone di eventi terribili, e l’unico modo per non esserne travolto (oltre a cercare di restare vivo, per esempio arrampicandosi su una trave della sala, mentre a pochi metri sotto di lui avviene la mattanza), è di dedicarsi alla poesia.
Chi desidera imparare non deve mai dare a vedere che certi discorsi mancano di sostanza.
Quando prima ho parlato di “alzare la posta in gioco” intendevo proprio questo. L’intento di Thor è di rendere omaggio a quegli uomini, pochi ma preziosi, che scoprirono il valore della parola, e la celebrarono restando… uomini quando tutto attorno, parlava il linguaggio degli animali.
Guđmundur diventa l’uomo che non imbraccia le armi perché non ha probabilmente il coraggio e la forza di usarle. Forse non è nemmeno un buon poeta, ma trova nei manoscritti da ricopiare, validi motivi per non lasciarsi trasportare. E pazienza se il suo signore, lo dileggerà. Anche in quel caso non vacillerà: resterà a lui fedele, e anche alla poesia.
L’intento di Thor è di dimostrare come accanto alla tenebra della guerra, degli odii tribali, o dell’ignoranza, ci sia sempre spazio per il bello, la poesia. Di più: che spesso gli uomini sono capaci di impugnare un’ascia, e accanto ve ne sono altri che sanno ammirare e riconoscere il bello.
Vilhjálmsson celebra secoli e anni su cui il nostro pregiudizio ha calato il drappo del “Medioevo”, allo scopo di rafforzare in noi “evoluti” l’idea che tutto era squallido e agghiacciante. Eppure accanto a una quotidianità di rara ferocia (forse però simile a quella di questi tempi?) appaiono donne erudite, che hanno scelto la cultura e Dio per essere, piuttosto che rassegnarsi a diventare mogli o soprammobili dei signori della guerra.
E un vecchio cieco, che cuce scarpe sulla stessa roccia dove, bambino, trovava la compagnia degli elfi, non è solo lo scrivano del signore morto in battaglia anni prima, e di cui attende il ritorno.
È qualcuno che modestamente, ha scelto di restare uomo. Senza che gli altri, attorno, ne abbiano consapevolezza; o forse sì?
La corona d’alloro (Editore Iperborea. Traduzione a cura di Silvia Cosimini).