Le mie montagne: Il Corno alle Scale

Da Patrickc

Il sentiero che sale alla vetta più alta dell’appennino bolognese, sul quale ogni immagine si confonde coi ricordi.

Il Corno alle scale (foto di Patrick Colgan, da Flickr)

Dalla vetta, nelle giornate più terse, a nord si vedono le Alpi, al di là della grande conca della pianura Padana. A ovest, oltre le cime frastagliate delle Apuane, molto più in basso, si vede brillare lo specchio azzurro del Tirreno, un mare lontano, che da qui appare un altro mondo, ma che sembra di poter toccare allungando un braccio. Nei giorni più chiari e limpidi si vedono addirittura l’Elba e, forse, quello che sembra uno spicchio di Corsica.  Verso ovest lo sguardo spazia sulle vette dell’appennino modenese. C’è il cono imponente del Cimone, più lontano la sagoma del Cusna.

E’ a queste immagini che penso mentre seguo strade conosciute, diretto al Corno alle scale, il monte che domina da 1945 metri le strette valli dell’appennino bolognese. Non mi sono inventato nulla, anche se ricordo quelle immagini che si affastellano nei miei pensieri distinte, ma irreali, come se provenissero da un sogno. Non si vedono sempre quelle montagne lontane, quell’acqua. Serve un po’ di fortuna, perché la montagna prende e dà.Il Corno quando lo vedi lo riconosci subito. Si chiama così per il suo profilo inconfondibile, a gradoni di pietra, che visti da certe prospettive sono spaventosi. Qualcuno, animato da fede, ma forse con poco rispetto per la montagna ci ha messo in cima una croce, che ormai è tutt’uno col monte, di cui ‘la Croce’ è quasi diventata sinonimo. Oggi io e Matteo stiamo andando alla Croce.

Il monte domina la valle del Dardagna, dal profilo più aspro e alpino, e la valle del Silla più verde, stretta e cupa, ma non meno bella. Qui ci sono alcuni dei tesori meglio nascosti dell’appennino come Monteacuto delle Alpi, un paese aggrappato a uno sperone di roccia che spunta in mezzo al nulla: visto dal Corno è una macchia biancastra in rilievo in mezzo a un lago verde, scuro come l’acqua profonda. Come una piccola nave. In quella stretta valle ci sono anche la chiesa immersa nel bosco di Madonna del Faggio, e poi Pianaccio, il paese di Enzo Biagi. Ma io amo di più l’altra valle, quella del Dardagna,  quella conosciuta, dove ho passato tante, lunghissime estati con i miei nonni. E gli amici. E’ una valle più ampia e rocciosa, scavata da un torrente scorbutico che prima di arrivare in fondo alla stretta dei monti si esibisce in una serie di spettacolari cascate. Qui le case sono meno raccolte che nell’altra valle. Le case antiche, in pietra, e quelle più recenti e sgraziate sono sparse, rade, tanto che i centri principali come La Ca‘ e Poggiolforato non hanno una forma precisa. Su questa valle incombe il profilo dei Monti della Riva che corrono quasi verticali lungo il fiume: il loro volto roccioso e impervio mi è sempre sembrato selvaggio, imprendibile, misterioso. Per decenni ho fantasticato su questi monti. Facevo correre lo sguardo su e giù per i loro solchi, li esploravo con il binocolo dalla finestra sul retro della nostra casa del Torlaino, un piccolo  borgo lungo la strada che si arrampica sul Corno, dall’altra parte della valle. Oppure, queste montagne le guardavo dall’alto del Corno, quando si andava alla Croce. Da lì, nonostante siano alti ben oltre i  mille metri, i Monti della Riva  sembrano quasi insignificanti, si perdono fra le rughe del paesaggio.

I monti della Riva, d’inverno (foto di Patrick Colgan)
“il loro volto roccioso e impervio mi è sempre sembrato selvaggio, imprendibile, misterioso”

Matteo da queste parti non è mai venuto, nonostante sia nato a Bologna. Quello che mi stupisce è che molti bolognesi, specie chi non scia, ignorino il Corno e si sorprendono quando a meno di cento chilometri da Bologna scoprono monti aspri e rocciosi e panorami quasi alpini, abituati a frequentare – stranezze della geografia e delle abitudini – più le montagne modenesi come Il Cimone o quelle venete, vanno ad Asiago.  “Sembra davvero di essere in montagna” dicono quando scoprono gli appennini. E’ un’affermazione che alle mie orecchie suona stonata. Questa per me è sempre stata La Montagna. Più che i bolognesi, qui vengono i fiorentini e i pistoiesi, che spesso chiamiamo semplicemente ‘i toscani’. Fuori da queste zone, poi, il Corno lo conoscono in pochissimi. Alcuni ne ricordano il nome perché è citato in un libro di Tiziano Terzani che aveva la sua casa a Orsigna, all’ombra del monte, sul versante toscano. Qualcun’altro lo ricorda perché qualche anno fa ci arrivò il Giro d’Italia. Non c’è nemmeno un’acqua minerale col suo nome, che invece ha il Cimone, a sbiadirlo nel ripetersi di un marchio sulle bottiglie di plastica. L’acqua, però, qui è buonissima. Ho in mente mio nonno che riempie la caraffa di quell’acqua limpida alla fontana del borgo, un gesto che ripeteva ogni giorno, più volte. Lavava accuratamente il recipiente di vetro, poi faceva salire il liquido fino all’orlo e rientrava in casa con quel piccolo tesoro trasparente. Noi ci fermiamo a riempire le borracce poco più su, a Rio Ri dove alla densa ombra degli abeti una semplice fonte, versa senza sosta l’acqua che proviene dal cuore della montagna che salta in un bacino di pietra. Ricordo mio nonno. E il mio gesto si confonde col suo.

Sui sentieri del Corno

Su questi monti ho sempre amato camminare e ne conosco i sentieri. Non tutti, ma molti li conosco, li ho battuti più e più volte, li so quasi a memoria. E non me ne allontano mai. Qui si aprono continuamente dirupi, calanchi e pietraie e lo tengo a mente. Temo l’altezza, il vuoto, anche se con gli anni ho imparato a controllarmi e a spostare in avanti i miei limiti.  Parcheggiamo a Pian d’Ivo, uno spiazzo prima del paese di Madonna dell’Acero, alle soglie del Corno, a 1190 metri di altitudine.  E’ da qui che partiamo per salire sul monte la Nuda, a 1828 metri, il secondo dell’appennino bolognese. E’ una cima ampia e spoglia alle pendici del Corno che ho in mente come prima tappa.  Da lì, da quel prato che dà il nome alla montagna, il panorama non sfida l’orizzonte come quella vista potente dalla Croce, ma si vedono meglio i monti vicini, se ne possono interrogare meglio le pietre, e gli alberi. E’ una visione più reale e concreta. Una volta che saremo in vetta decideremo cosa fare: i sentieri sono  molti e lungo il percorso si incrociano, idee, possibilità, indicazioni cariche di promesse.

Per andare alla Nuda si sale dal parcheggio e ci si inoltra nel bosco lungo una strada sterrata, la  323 del Cai, e si inizia a salire. Matteo è silenzioso, così ci concentriamo sul atto del camminare, che per me all’inizio è sempre faticoso. Ho bisogno di tempo per trovare il mio ritmo. In genere viene da solo, come un adattamento naturale del respiro, del passo, del battito del cuore. Cammini e il corpo e la mente lentamente cominciano a camminare anche loro. Una ventina di minuti dopo la partenza si imbocca un altro sentiero, più stretto e ripido, che si inerpica verso destra. E’ il Cai 327 che si infila in un bosco scuro e inizia a salire fra rottami e  rovine, fra quelle  che un tempo erano opere d’arte che qualcuno ebbe l’idea di piazzare in mezzo al bosco, come se qua non ci fosse abbastanza bellezza, abbastanza di cui riempirsi gli occhi e svuotare la mente. Fra i muschi e i tronchi ci sono pietre, legno e ferraglia e non importa che aspetto avessero un tempo e se l’artista fosse stato bravo o meno: sono state dimenticate. E la ruggine, la neve, l’umidità, lentamente le stanno smontando pezzo dopo pezzo. Il bosco se le sta riprendendo, le sta digerendo. Alcune assomigliavano ad antiche tombe e ora sembrano avere davvero secoli, invece che vent’anni. Chissà, forse l’idea era proprio questa: creare una piccola Angkor Wat nascosta nella foresta, far scervellare gli archeologi o i viaggiatori del futuro.

Guardiamo avanti. Qui il percorso comincia a salire veramente, implacabile. Ci sono oltre seicento metri di dislivello da fare in due ore. Si ripetono abetaie, faggeti, castagneti e il mio passo si fa più pesante. Matteo è sempre venti metri davanti a me. Assaporo la fatica, ma in mente ho un luogo. Nelle prime due ore di cammino c’è un solo punto in cui il sentiero si riposa per pochi metri, forse una ventina, in un angolo di bosco fresco, dove in primavera a volte scorre un rigagnolo d’acqua. E’ il tratto in cui le gambe si fanno più leggere e si riprende fiato prima di ricominciare la salita. E’ un momento che attendo dall’inizio dell’ascesa e che è sempre troppo breve. Poco più avanti, dall’alto, comincia a filtrare fra gli alberi un bagliore, un luccichio e fra i rami e le foglie si vedono triangoli di azzurro del cielo. E’ il momento in cui si sbuca all’improvviso all’aperto, si esce dalla coperta del bosco e ci si lasciano gli alberi alle spalle. Si viene inondati di luce. E quando ci si volta si scopre di essere su un diverso pianeta. Siamo in alto, guardiamo tutto dall’alto: cambia la prospettiva, cambia il mio occhio. Sopra di noi c’è solo il Corno a scrutarci dall’alto. Un tempo il panorama ampio e profondo mi faceva tremare le gambe, ora semplicemente risucchia il mio sguardo, perdo il contatto con lo spazio, per qualche secondo mi sento tutt’uno col vento.

Un tempo il panorama ampio e profondo mi faceva tremare le gambe, ora semplicemente risucchia il mio sguardo, perdo il contatto con lo spazio, per qualche secondo mi sento tutt’uno col vento (foto di Patrick Colgan)

In questo punto sembra di essere arrivati in vetta e invece quella cima piatta che conosco è lontana, si nasconde dietro al falso orizzonte della salita. All’aperto, esposti alla luce e al vento camminare è più duro. C’è un’altra mezz’ora estenuante fra le piante di mirtillo che coprono i fianchi del monte. La vetta in realtà non offre molto di più, se non un punto in cui riposarsi e in cui perdersi con lo sguardo nel vuoto da ogni lato. Non è poco.

Da qui  voltiamo verso sud ovest, lungo la strada per il Corno che scende dolcemente al passo Vallone, seguendo un largo crinale poco battuto. E’ un sentiero che domina la Valle del Silenzio, un angolo idilliaco, dimenticato sotto il Corno alle scale, scavato da un antico ghiacciaio che ha avuto mano leggera. Ha scavato la roccia con la violenza del suo peso e della gravità, ma con l’aiuto del tempo ha disegnato morbidi pendii ricoperti di verde, che qua e là svelano l’anima di roccia della montagna. Quella che incrociamo, che sale da valle era la passeggiata della domenica con mio padre nelle infinite estati in montagna di un tempo passato. Un passato che in questo momento sembra confondersi col presente. Sono le pietre, gli alberi, i monti lontani a sud in Toscana a raccontarmi i ricordi. “Viaggiare è ritornare” scrive Magris, e riconoscere, aggiungo, è ricordare. Salivamo dal rifugio Cavone per  una quarantina di minuti di salita, poi il bosco si squarciava in questa valle verde e misteriosa, così solitaria, a volte, che sembrava il nostro intimo segreto. Si chiama Valle del Silenzio e anche se parlo con Matteo, ascolto quel silenzio. I piedi affondavano nel muschio e nell’erba, perché qui la terra trasuda acqua che si trasforma in un torrente, mentre lo sguardo saliva sulle rupi sopra di noi. E qui, saliti sul passo, ci fermavamo, sempre. Io avevo timore di proseguire per il Corno e quindi ci limitavamo a misurarlo con lo sguardo, a salire i suoi gradoni minacciosi con gli occhi. Il tempo di mangiare qualcosa, di sporgere lo sguardo sulla Toscana che si estende dall’altra parte, e poi di ridiscendere per essere a casa a pranzo.

Nella Valle del Silenzio (foto di Patrick Colgan)

I Balzi dell’ora

Ora il monte mi incute lo stesso timore di sempre, ma minor paura. E’ da tanto che non lo affronto da questo lato, da molti anni. E’ un sentiero che fanno le famiglie, che fanno tutti, ma io sento nel petto quel timore di un tempo. Mi attira e mi respinge. Ma Matteo spinge per salire: la vetta appare imprendibile da qui e per vedere il sottile sentiero fra le rocce bisogna sforzarsi, insistere. E prendere questa montagna è il tipo di sfida a cui non sa resistere, specie quando vede l’incertezza nei miei occhi. Raccolgo la sfida senza pensarci.  Oltrepassiamo il passo Vallone e imbocchiamo il sentiero 337 che punta dritto alla Croce, lungo i Balzi dell’ora. Fino a quota 1945 metri sono circa 200 di dislivello quasi in verticale. Il cartello del Cai è perentorio “Tratto alpinistico, per escursionisti esperti”, ma il percorso in realtà diventa difficile solo con la pioggia o il ghiaccio. Così si dice. Certo, va affrontato con grande cautela, perché si sporge su lame di roccia che corrono a precipizio per trecento metri. E la rupe ha già chiesto molte vite, anche se quasi tutte d’inverno. Io, semplicemente, non lo affronterei in scarpe da tennis come fanno alcuni. Anche questo è rispettare la montagna.

Il sentiero dei Balzi dell’ora

Il sentiero, in effetti, non è difficile. Da poco è stato rifatto a scalette e sale ripido ed esposto, ma l’appoggio è saldo e sicuro. Solo in due punti è necessario issarsi su delle rocce, quella che gli scalatori definiscono un’arrampicata di primo grado. Io tengo lo sguardo fisso sul sentiero e impreco per farmi forza, perché l’altezza in questo punto, dove il sentiero si stringe e quasi sparisce sulla stretta cresta, mi mette a disagio. Metto un passo di fronte all’altro, faccio camminare la mia mente e il mio respiro, che si smarriscono solo quando alzo gli occhi e vedo le rocce che dal basso sembravano quasi schiacciate proiettarsi verso l’alto, in un anelito verticale. La Valle del Silenzio da qui sembra un imbuto, uno scivolo che mi chiama verso sé. Gli occhi tremano, non le gambe. Non più.

A volte però bisognerebbe fermarsi qui, perché quando si arriva alla Croce, d’estate, è come risvegliarsi da un sogno. Ci sono le famiglie arrivate comodamente in seggiovia e gli escursionisti giunti dagli altri sentieri. E lo sguardo incrocia i tracciati degli skilift e delle piste da sci dalle quali sono sceso tante volte, ma che d’estate sembrano ferite aperte sui fianchi della montagna.

C’è foschia e i contorni delle montagne che ci circondano sono sbiaditi, incolori, confusi. Non si vedono né le Apuane, né le Alpi, nemmeno Pistoia. Tantomeno si vede il mare, oggi. Ma io lo vedo lo stesso.

La Nuda, vista dalla vetta del Corno (foto di Patrick Colgan)

Verso lo Scaffaiolo

Da qui si può scendere con la seggiovia o con una carrabile che parte vicino alla stazione della seggiovia più bassa, ce ne sono ben due in cima. Ma preferisco camminare. Il sentiero che amo di più è quello che segue il crinale e pennellando un semicerchio verde, sulle valli scavate dai ghiacciai, arriva fino al lago Scaffaiolo, che da qui non si vede, e poi continua verso il Modenese, il passo di Croce Arcana e il lontano Cusna. Siamo stanchi, ma Matteo guarda silenzioso in quella direzione. Ho capito che vuole andare avanti, non c’è nemmeno bisogno di dirselo. Quando la cresta non è sferzata dal vento o avvolta dalle nubi serve circa un’ora di sentiero, quello marcato dal segnavia 00. E’ un sentiero facile, senza strappi, ma ogni sussulto, ogni più piccola salita pesa sulle gambe dopo i mille metri di dislivello che ci siamo messi alle spalle. Sento ogni metro sulle ginocchia, sui piedi. Abbiamo già camminato almeno cinque ore, ma le gambe non si fermano. Arriviamo al lago stanchi e non riesco nemmeno a salutare come si deve questo antico specchio d’acqua, teatro di cupe leggende che parlano di gorghi, di strane correnti, di sparizioni inspiegabili che ancora lo ammantano di una strana luce. Anche nei giorni più caldi nessuno ci fa il bagno. Al lago ci si può ristorare al rifugio Duca degli abruzzi dove si può anche dormire se si vuole continuare, magari per raggiungere il monte Cusna. Non è lo stesso rifugio di un tempo, dove ci si fermava con gli amici di ieri e di oggi, con i genitori, anche con i nonni che fin qui, lungo i sentieri più facili, sono venuti fino a ben oltre i settant’anni almeno una volta ogni estate. Al tempo era un prefabbricato giallo e angusto, che si vedeva da lontano, inconfondibile. Ora è una grande casa in pietra che ancora stento a riconoscere. Prendiamo una birra e guardiamo il sentiero che procede verso ovest, si addentra nel Modenese. E’ un sentiero che per me rappresenta l’ignoto. Siamo tentati di violarlo, di svelarlo, di sbirciare dietro questo velo e fare qualche passo in una terra inesplorata. Ma il sole che si abbassa ci ricorda le gambe pesanti e l’auto ancora lontana. C’è ancora da camminare, anche se la nostra montagna è già finita. Presto pesteremo asfalto. Dal lago c’è un’altra ora e mezza di cammino con la strada carrabile, due se si prende il vecchio sentiero. I due percorsi si allargano e poi uniscono, toccano le piste da sci e quindi si insinuano lungo la strada per alcuni chilometri, fino a Madonna dell’Acero e Pian d’Ivo. I ricordi li porto con me, quelle rocce, quei prati, quegli alberi restano, per essere riconosciuti di nuovo, la prossima volta.

Il lago Scaffaiolo (foto di Pietro Bassi)

Note

Percorso: Pian d’Ivo (1190 metri) – Monte La Nuda (1828 m) – Corno alle Scale (1948 m) – Lago Scaffaiolo – Pian d’Ivo. Dislivello: circa 1200 metri. Durata circa 6-7 ore.

Il Parco regionale del Corno alle scale si raggiunge da Bologna in un’ora e quaranta minuti circa lungo la SS 64 Porrettana (uscita A14 Sasso Marconi), da Modena via Fanano/Montese o dalla Toscana via Pistoia. Qui indicazioni più precise, anche per il treno: Come arrivare al Corno alle Scale

Link collegati:

Il lago Scaffaiolo (Orizzonti)

Escursione Balzi dell’ora (Avventurosamente)

Parco regionale del Corno alle Scale


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