Le mummie di Roccapelago all'ospedale di Forlì per una tac

Creato il 20 luglio 2012 da Apietrarota

Nei giorni scorsi, l’U.O. di Radiologia, diretta dal dott. Mauro Bertocco, ha sottoposto a uno studio Total Body 6 delle circa 60 mummie naturali ritrovate a Roccapelago di Pievepelago, sull’Appennino modenese. Esami Tac a pazienti molto particolari, lunedì 16 luglio 2012, all’U.O. di Radiologia, Diagnostica Interventistica e Medicina Nucleare dell’Ausl di Forlì, diretta dal dott. Mauro Bertocco. La diagnostica Tc1 dell’unità ha, infatti, sottoposto a uno studio Total Body 6 delle circa 60 mummie naturali ritrovate all’inizio del 2011 nella cripta della Chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo a Roccapelago di Pievepelago, sull’Appennino modenese. Lo studio Tc, finalizzato a lavori di restauro ma anche alla ricostruzione di vita, attività, cause di morte e peculiarità di questa comunità, è stato effettuato in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna. Oltre ai medici radiologi dott. Mauro Bertocco e dott.ssa Sara Piciucchi, e ai Tsrm Antonella Dall’Osso e Lucia Marani, hanno partecipato all’esame gli antropologi dott. Mirko Traversari e dott.ssa Caterina Minghetti, coordinati dal prof. Giorgio Gruppioni, titolare della cattedra di Antropologia nella Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Bologna (Polo scientifico-didattico di Ravenna). Tra il dicembre 2010 e il marzo 2011, durante lavori di ristrutturazione e restauro nella Chiesa della Conversione di San Paolo a Roccapelago di Pievepelago, sull’Appennino modenese, gli archeologi hanno fatto una scoperta eccezionale: una fossa comune con 281 inumati tra adulti, anziani, infanti e settimini, di cui circa 60 perfettamente mummificati. Donne, uomini e bambini, presumibilmente l’intera collettività vissuta a Roccapelago tra il XVI e il XVIII secolo. Non si è trattato, come accade di solito, della mummificazione volontaria di un preciso gruppo sociale (monaci, beati o membri di famiglie illustri che siano) ma della conservazione naturale di un’intera comunità, consentita dal microclima particolare dell’ambiente, caratterizzato da scarsa umidità e intensa aerazione. Si tratta quindi non solo un ritrovamento unico per l’Italia settentrionale ma un’autentica miniera di informazioni, in virtù della rara opportunità di studiare sia i resti umani che gli indumenti e i tanti oggetti d’uso quotidiano, ricostruendo quasi tre secoli di vita contadina, credenze, tradizioni, usanze e abitudini di quell’antica comunità montana. Un importante contributo in questo senso, quindi, è venuto dall’U.O. di Radiologia dell’Ausl di Forlì, che ha messo le proprie sofisticate attrezzature al servizio delle indagini condotte dalla Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Bologna e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna.