Scritto da Cristian
La manifestazione europea dello scorso 14 novembre ha segnato un punto di partenza piuttosto che uno di arrivo.
Il carattere paneuropeo dei cortei propone, infatti, un importante precedente nelle dinamiche di una presa di coscienza collettiva circa le gravi difficoltà in cui perversa l’Europa.
Le ricette liberiste e le politiche di austerity sono state oggetto di ferma contestazione grazie all’impulso mosso dalla confederazione europea dei sindacati a cui, tuttavia, in Italia ha dato seguito la sola Cgil, quello stesso sindacato, oggi in posizione di contestazione verso la trattativa sulla produttività.
Ed è chiara, in questo senso, la legittima presa di posizione assunta dal Segretario Susanna Camusso e manifestata alle associazioni delle imprese ed alle sigle sindacali attraverso una lettera in cui sono stati elencati i nodi ancora da sciogliere, principalmente legati alla debolezza sul fronte della rappresentanza sindacale ed al progressivo depotenziamento dello strumento del contratto collettivo.
Il principio del primato della democrazia sindacale, come necessità per un ordinato sistema di relazioni e l’altrettanto fondamentale elemento di reciprocità incentrato sull’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, sono elementi da cui la Cgil non si è chiamata estranea e che possono portare, se disattesi, ad una mancata partecipazione alla firma sul testo della produttività.
Si ripropone il problema dell’effettivo peso dato alla contrattazione collettiva ed alla capacità di formare dei tavoli in cui le intese ed il dialogo attorno agli interessi delle parti sociali rappresenti la priorità dell’agire e del decidere.
Tutto questo, all’interno di un panorama dominato da cinque anni di crisi depressiva, non fa che accuire il senso di frustrazione delle masse e quella incapacità degenerativa della stessa politica a dare loro delle risposte condensate in programmatiche riforme piuttosto che in languidi proclami elettorali.
Il 2011 sarà ricordato, dalla regione del nord Africa al cuore dell’Europa e degli Stati Uniti, come l’anno dei movimenti.
Movimenti che hanno al proprio interno e nelle loro corde quella passione culturale popolare che ha spinto le persone a cercare nuove soluzioni collettive e nuovi modelli di partecipazione democratica.
Si propongono nuovi scenari in risposta alle mistificanti ideologie dei signori dell’alta finanza e dei propulsori del mercato ideologicamente assunto a soggetto in grado di autoregolamentarsi e di generare forme di rendita sempre più esorbitanti.
Questo sistema politico - economico che domina la scena da oltre un trentennio si trova di fronte al giudizio della storia.
Ma se, da sempre, i cicli storici hanno trovato nelle dinamiche umane i propri risvolti risolutori, anche oggi le collettività partecipate danno corpo a precise pratiche decisionali.
La Rivoluzione Francese e i Moti del '48 hanno scosso la società europea rivelandosi come simboliche tappe di un lungo processo di rielaborazione della distribuzione del potere.
I primi studi di psicologia delle folle sono una conseguenza degli sviluppi a cui andarono incontro le società dell'Occidente nel corso del XIX secolo, e non è un caso che vengano dalla Francia.
In gioco, oggi, vi è la discussione sui meccanismi della democrazia partecipativa e rappresentativa ed un modello di economia che non è stato in grado di soddisfare i bisogni della meadle class e delle persone più svantaggiate.
Studiosi dei fenomeni politici e sociologici evidenziano come alla fine dell’età dell’oro professata da Eric J. Hobsbawn abbia fatto da contro altare un nuovo corso storico post industriale e post modernista.
Il periodo del “capitale fermo” e della stabilità di tradizione fordista ha lasciato spazio a nuove flessibilità ed ad acute forme di progressivo indebitamento e povertà.
I movimenti di protesta sono nati sulle ceneri di un quarantennio di sviluppo sociale e di interventismo statale per ridare voce alle persone e mettere in discussione gli impulsi individualizzanti di un consumismo sfrenato.
A guardare l’homo societatis ci si accorge di come sia stato inghiottito e tacitato dalla sua stessa creatura, ricercando nella soddisfazione personale e materiale nuove forme di etica terapeutica dell’auto – realizzazione.
Lo spostamento degli investimenti dal capitale alla rendita e la dislocazione delle dinamiche produttive in mercati maggiormente e più facilmente “aggredibili” dagli stessi capitalisti hanno dato per infranto questo sogno.
Gli sviluppi del concetto di lavoro, secondo la filologia sociologica novecentesca, non sarà più riproponibile e le masse hanno da tempo compreso questa evoluzione chiedendo ai rappresentanti delle democrazie delle risposte di alternatività.
Venendo a mancare queste, credo che le manifestazioni più recenti costituiscano una forma del tutto nuova di passaggio epocale verso un nuovo concetto di socialità responsabile.
Il nuovo thema decidendum su cui si formeranno nuove forme di dialogo sarà costituito dalla scelta dei programmi da mettere ad esecuzione.
Ma non sarà compito dei partiti, secondo la connotazione che si sono dati sino a questa fase, poiché l’incapacità inconcludente e la deriva immorale ne hanno segnato il tramonto.
Nasceranno altri soggetti che sapranno articolare al proprio interno nuove pratiche decisionali ed una rinnovata capacità di coinvolgere le masse nelle scelte come nei ruoli.
Penso alla necessità di ripensare il concetto di delegabilità politica e di rappresentanza come la necessità di creare nuove forme occupazionali che investano le eccellenze di molti giovani attraverso nuovi programmi di sperimentazione e ricerca ed attraverso la riqualificazione di mestieri e ruoli ormai obsoleti appartenenti alle generazioni più vecchie di lavoratori.
Non parlerò, tuttavia, di rottamazione perché il valore umano e l’esperienza sono risorse da cui ripartire per rifondare piuttosto che riformare.
Cristian Curella.