di Roberto Oddo
6. La terra sotto i piedi
Rileggo il messaggio e trattengo a stento il sarcasmo. La fine del mondo è vicina. Traggo un paio di conclusioni che tengo per me e mi decido ad aprire la busta ancora chiusa, ma ho appena praticato uno strappo sulla superficie che sento la porta di casa aprirsi. Raccolgo lembi e fogli sparsi e li piego rabbiosamente, accartocciandoli nella tasca a destra, dove metto le chiavi di casa. Quando Gil entra, vedo che non è solo e qualcosa tra le ombre che si affollano dietro di lui mi aiuta a oscurare qualunque traccia residua di ilarità. Infine mi arrendo all'evidenza.
"Alejandro!", modulo festosamente il mio entusiasmo, "E stasera hai portato anche tua madre!"
L'uomo, che non ricorderò mai in quale circostanza sia stato aiuto di Gil al ristorante, sorride meno convinto di me. "Già, siamo io e lei."
Lei, per l'appunto, varca malferma la soglia di casa, saluta con un cenno del capo e mi si avvicina puntellando il pavimento con il suo bastone, mi raggiunge senza guardagnare granché in altezza al mio sguardo e ridacchia, dicendomi qualcosa che capisco benissimo, ma che Alejandro si premura di tradurre e smorzare : "Dice di valutare meglio le persone, prima di dare il numero di telefono."
Gil ride e posa dei pesanti sacchi gialli sul tavolo in cucina, proprio accanto all'ingresso. Lo seguiamo nel suo regno e in ordine sparso mi racconta di aver fatto la spesa, di aver visto quel numero numero sul bigliettino all'ingresso, di essere stato curioso, di aver pensato che, insomma, fosse un mio nuovo contatto privato, "che so, magari era un modo per darmelo", di averlo fatto, di aver trovato il cellulare dell'altro spento, e di aver ricevuto anche lui, alla stessa ora, il messaggio automatico di raggiungibilità e la fatidica profezia. La fine del mondo è vicina. Solo che, non contento di una comunicazione monolaterale, ha risposto qualcosa con prontezza.
"Ma non dovevi dargli peso, sarà un pazzo!", protesto.
La madre di Alejandro mi guarda con aria severa. Poi si volta a darmi le spalle e ondeggia come un metronomo: mi par di sentire, nell'avanzare assorto e scandito dei suoi passi, un sinistro conto alla rovescia, sebbene la sua meta sia il tavolo e il pericolo rappresentato dal suo rimprovero rimpicciolisca man mano che si allontana. Lì, comincia a tirare le cose fuori dai sacchetti, come con diffidenza, con le cura di chi stia ancora valutando gli alimenti per l'acquisto. Mi esploro le tasche quasi per caso, ma non faccio che trovare le mie due lettere, una aperta e l'altra ancora piegata nella sua busta. E Dio solo sa dove si celi il mistero, tra le due.
"Faccio io, Daria, tranquilla, riposati pure. Stasera penso a tutto io, siete miei ospiti", le sorride il mio amico, ricordandomi il nome della signora, che in effetti non riesce a fissarmisi nella memoria. Lei fa un cenno d'assenso, ma continua a studiare un barattolo che da qui non vedo, fino a riposarlo, pensosa, nello stesso sacchetto da cui l'aveva preso.
Arriva un messaggio sul cellulare di qualcuno e, se non fosse per la vibrazione, non avrei mai pensato che fosse per me. Gil mi prende il telefono ridendo "Dai", dice, "dai, ci penso io stavolta."
Guardo l'orologio della cucina, proprio di fronte a me, sono le sei in punto, e stringo il telefono con una forza che non lascia equivoci.
"Ah, allora non è il nostro comune amico!" E non smette di ridere. "Dai, leggi, su... vogliamo sapere tutto." Ma, pensando che sia di Barbara, mi fa un cenno segreto d'intesa, silenzio!, mentre torna a lavoro.
Leggo con finta aria distratta il messaggio di Sabine, e dico, come si parlerebbe del tempo, per stornare l'attenzione dal mio segreto: "Piuttosto... non capisco come si faccia a vivere pensando di essere sempre alla fine". Ma dalla voce deve trapelare in qualche modo un che di soddisfatto e vittorioso, che stride nella stanza: quando risollevo lo sguardo, stordito dal silenzio che è seguito alla mia ciarliera leggerezza, vedo che davanti a me c'è Alejandro inquieto; sua madre, abbandonata la ricognizione dei cibi, si è come congelata.
Lui si volta a guardarla e lei, che lascia ha il bastone troppo lontano, si fa strada sugli schienali delle sedie, appendendosi infine al figlio. Non mi parla, mi pietrifica con una violenza che viene sfumata solo dalla traduzione che Gil appronta sul momento col suo sguardo severo. Daria mi domanda piuttosto come si faccia a vivere quando sai che sprofonderai ancora a lungo, quando ti senti trascinare giù e sai che l'unico contatto con il mondo sono le mani strette alle tue caviglie, con quale forza tu possa accettare di abbandonare chi ami dopo aver compreso che sprofondi per l'abbandono di coloro che amavi, per quale ragione si debba privare una donna o una uomo della sua unica certezza: che tutto questo finirà e che, soffocante finché si vuole, si arriverà su un fondale sabbioso, dove chi ti trascina giù ti prenderà in braccio e ci saranno tutti gli altri, là sotto, ci si rincontrerà tutti, uno stillicidio di anime con la terra sotto i piedi, scivolosa e mobile, ma una terra sotto i piedi, da percorrere senza più vertigini, con lo sguardo volto in su, dalla superficie delle onde e della luce da cui siamo stati trascinati via.
La donna interrompe con un gesto repentino la traduzione di Gil, come se ne temesse l'inefficacia, e si rivolge direttamente a me: "Tu studi persone che credono, vero?"
"Non proprio. Studio popoli che si identificano in un credo, le loro abitudini, le loro preghiere, le storie di tutti..."
"Ma a te importa che credano, che - insomma - vivano come credono, o" - e qui una smorfia - "sei solo uno storico?"
Imploro Alejandro di salvarmi da sua madre, Gil si allontana per sistemare le ultime cose, ma mi rendo conto che ascolta con molta attenzione.
"Ascolta, Daria, io credo tante cose, ma non le dico tutte in giro."
Lei scoppia a ridere, come se si fosse decisa a dissipare in quest'improvvisa ilarità l'energia residua della sua vecchiaia. "Sei un bell'ingenuo, mio caro: la differenza tra credere e non credere non sta nell'aderenza tra fatti e parole. Lasciala agli altri, l'ostinazione. A credere, bisogna essere più creativi e liberi. Il problema non è la gente, è l'idea che tu hai di te, degli altri e del mondo."
Alejandro, che doveva aver sentito troppe volte questi discorsi, mi guarda con autentica commiserazione. Ma sua madre si interrompe e lo fissa, come a ricordarlo a lui, innanzitutto, e torna lentamente al suo tavolo, accanto a Gil. Daria tenta di accarezzargli il capo, ma lui è troppo alto, così gli stringe un po' le braccia, affettuosa. Il mio amico si volta verso di lei e lo vedo di scorcio a sorriderle, indicando il tavolo vuoto davanti a loro: è il momento di preparare.
Io sono ancora con il cellulare che visualizza il messaggio di Sabine in mano. Ho un formicolio che mi prende dappertutto. "Sto tornando", dico. E mi accerto di avere abbastanza scuse con me. Tiro fuori buste ormai stropicciate e le sventaglio in aria, come dall'alto di una nave che salpa, in un gesto di comico addio, di cui sono il primo a rendermi conto. Alejandro mi saluta con un gesto affrettato della mano, come a scongiurare di portarlo con me, ma non ne ho la minima intenzione.
Daria si volta verso di lui. Poi verso di me, sorride e saluta con un gesto della mano, mentre con l'altra si regge al tavolo: "Prenditi la giacca, giovanotto". E forse si chiede se almeno quelle, tutte raggrinzite, siano lettere d'amore.
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