[Le onde] 7. Entr'acte

Creato il 22 aprile 2012 da Spaceoddity
Le onde
di Roberto Oddo
7. Entr'acte
Com'è che la sera di Berlino si decida a precipitare così all'improvviso in un temporale come questo rimane per me inspiegabile. E dire che l'aria era tersa, la vista accecante, ma le nuvole e il malumore trovano sempre un angolo cieco di questo intervallo di cielo dietro le finestra. Talvolta si mimetizzano nel silenzio o nel borbottio dei passi qui dentro. In altri casi sembra che io usi il mio archetto come uno scudiscio sul fondo liscio della vista lasciando alle spalle una scia di scintille.
Antón... Antonio... Tonio. Tu vieni dal mare, dove già la primavera brucia: dovresti rabbrividire di queste nebbie improvvise. Conosco i tuoi malumori, è già la quarta volta che ti vedo uscire in ventiquattro ore e stento a credere che siate tutti e quattro l'uomo che adoro: ogni volta sembra che tu abbia lasciato Gil a una nuova emergenza o come se ti fossi stancato della sua carne, dei suoi odori. Adesso, poi, con queste tue lettere in mano, sembra qualcosa di definitivo e irreparabile.

Quando ti sei avvicinato ancora allo spioncino, per la tua speciale necessità di provare a guardare tutto dal lato opposto, ma bisogna sempre guardare qualcosa di nuovo, per quando si sarà ciechi e non si potrà veder altro che i propri ricordi. 
Ho sentito mia madre prepararsi per uscire, allora ho inventato una scusa per trattenerla quei pochi secondi necessari alla tua indiscrezione. Le ho chiesto se ci fossero tutte le mie medicine e lei ha risposto spazientita che forse il mio male è altro, che questa settimana non ho fatto che preoccuparmene, come se in casa mi mancasse altro. Poi tu sei andato via in tempo per evitare la sua fuga, l'ho vista guardarti, sarai stato già a metà della prima rampa, e ho sentito la tua voce nella tromba delle scale. Poi lei si è voltata verso di me, come se la tua presenza all'improvviso l'avesse calmata e insieme animata di una risoluzione ineluttabile alla furia. Mi ha rivolto un rapido "ciao", come se intendesse "aspetta qui, sto arrivando" e si è chiusa la porta alle spalle. Deve averti superato, tant'era la premura di scendere. Se dipendesse dal mio udito, direi che vi siete scambiati gli sguardi più eloquenti, ma lo so che ti ha appena rivolto un cenno di saluto, è così che fa lei, va da un'altra parte.
Quando i battenti dell'ingresso al palazzo si scontrano chiassosi l'uno sull'altro, so che entrambi mi avete lasciata sola con il mio dolore. Con il mio violino tra le gambe che non posso più sentire. Il silenzio precipita su tutto il piano come fuori scroscia la pioggia. Il portone giù si riapre, si ode distintamente mia madre dire "grazie" con la voce già in dissolvenza nell'umidità della sera, e tu che sali di corsa, i gradini due o tre alla volta. Entri a casa, dici "ho dimenticato su l'ombrello", non sento risposta, e scendi. Non lo lasci mai nel cesto giù, del resto la mamma è l'unica a usarlo, come se fosse suo, e ci credete tutti. Poi scendi di nuovo, stavolta più lentamente, come se ti stessi gustando il piacere di essere fuori una buona volta. Chissà cosa ti preparerà Gil stasera
Paganini,
Capriccio n. 6, da dove tutto è cominciato. Dvorak, Humoresque n. 7, da qui posso liberarmi. Villa Lobos, trascrizione della seconda e della quinta Bachianas brasileiras, per tradurre col mio corpo ciò che fate voi che potete sollevarvi più in su della sedia. E poi Bach, Partite n. 2 e 3. Schubert viene interrotto dopo la prima nota: so che sei ancora una volta dietro la porta. Continuo a suonare qualcosa che somiglia alle prime battute che già mi ronzavano nelle orecchie, mentre mi avvicino a te dietro la parete; sembra Sibelius, devo lavorarci. C'è un attimo di sospensione, poi sento un fruscio. Ti sento sospirare pesantemente, ti alzi come se non fossi elegante ed elastico come ti vedo, come gli spasmi albini della mia carne impassibile mi dicono di te. Entri in casa e non mi resta che aspettare domani. Buona notte, amore mio. Che sia finalmente questo buio il tuo riposo. Io ho imparato a diteggiare al riparo dal sole troppo forte, chiudevo gli occhi anche nella penombra di casa, perché quelle scale posso percorrerle. Spero che nel sonno tu, Antón... Antonio... Tonio, ritrovi il tuo mare, tu che vieni dal mare. Io, che mi mimetizzo nella luce più accecante, ritrovo il corpo duro del legno, l'ingrata lusinga degli smalti lucidi sotto le dita.
Telemann, ancora Bach, l'ordine, la bellezza, il senso di tutto questo. E Ysaÿe, Ballade. Ad libitum.

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