Le origini del cinema dell’orrore: gli anni d’oro del muto

Creato il 04 gennaio 2014 da Alessiamocci

Mentre in Europa e nel mondo si assiste ad un avvento in ordine sparso di un primordiale cinema dell’orrore, dalle tematiche ancora palesemente legate alle origini letterarie del gotico e del fantastico, in un luogo geograficamente e cinematograficamente ben preciso, la Germania, il cinema fantastico assurge in tempi rapidissimi a un’identità espressiva, tematica e stilistica ben precisa, arrivando in tempi record a risultati di straordinario impatto artistico.

In altri termini, se la storia del cinema horror fosse un edificio, le fondamenta sarebbero rappresentate da molti dei film che la Germania produsse tra il 1913 e i primissimi anni Trenta. Una similitudine cui va aggiunta un’altra particolarità: oltre a essere le fondamenta del palazzo in questione, quei film ne costituirebbero anche la cantina, il luogo oscuro per eccellenza di ogni edificio, le cui stanze buie e fredde ospitano nell’ombra inquietudini che fanno trasalire anche gli abitanti dell’attico.

Gran parte del cinema muto tedesco, più qualche rara pellicola dei primi tempi del sonoro, è stato l’inesauribile fonte di ispirazione tematico-stilistica cui una vastissima parte dei migliori film della successiva storia dell’horror (e dei vari sottogeneri ad esso riconducibili) devono il proprio concepimento da parte dei rispettivi autori.

Recentemente molti commentatori dell’horror, forse anche disorientati dall continua fioritura di mode socio-estetiche di origine cinematografica, affrontano la trattazione di questo inafferrabile genere senza tener conto che, se oggi l’horror è dappertutto, c’è stato un tempo, gli anni Venti, in cui tutti gli ingredienti bollivano minacciosamente in un unico calderone di acciaio tedesco.

Insomma, se è mai esistito un cinema del disagio, ancor prima che un cinema dell’orrore, questo è il cinema tedesco del primo dopoguerra, un periodo storicamente indicato come la Repubblica di Weimar e così problematico forse non tanto per la sconfitta bellica in quanto tale, ma per il totale azzeramento di tutti gli ideali che da un secolo cullavano la crescita di intere generazioni germaniche, passate dal mito della Deutschland über alles alla più grave inflazione del Novecento, che li costringeva a pagare un paio di milioni di marchi per l’acquisto di un francobollo.

Ecco allora la spiegazione della potenza del Male e della velleitarietà di un fragile Bene, dell’elevazione di un Destino bizzarro e malvagio quasi a guisa di Divinità, le cui azioni sono imperscrutabili quanto crudeli, delle storie dettate da unasfiducia assoluta nel lieto fine (quando non imposto dalla produzione), di un’angoscia diffusa anche nei più lievi gesti del quotidiano, ma anche della trasposizione degli oggetti anche più usuali al rango di protagonisti delle vicende e, infine, dell’immanenza della malasorte sulle misere vite umane.

Del resto, è proprio in quegli anni che nasce il teorema secondo cui il cinema dell’orrore rappresenta per immagini le paure e le angosce tipiche del corrispondente momento storico e sociale. Un teorema tanto vero che in quegli anni disperati la Paura (della disoccupazione, della miseria, del disgregamento degli affetti, della sovversione del Male contro il Bene) raggiunse dimensioni così assolute da favorire la nascita di uno tra i più ampi e importanti movimenti artistici del Novecento: l’Espressionismo tedesco.

Nato ufficialmente intorno al 1905, ma sviluppatosi soprattutto durante e dopo la Prima guerra mondiale, l’Espressionismo tedesco si sviluppò rapidamente come un movimento dalle molteplici espressioni, affermandosi dapprima nelle arti figurative ma espandendosi subito dopo anche nella letteratura, nella musica, nel teatro e, infine, in quel nuovo mezzo di espressione che era il cinematografo. In sostanza, si può dire che la cifra distintiva dell’Espressionismo implicava una posizione opposta all’Impressionismo, ossia la totale applicazione dell’artista all’espressione dei propri sentimenti interiori.

Il primo film dell’orrore tedesco, Der Student Von Prag” (“Lo studente di Praga”), diretto nel 1913 dal danese Stellan Rye e interpretato da Paul Wegener e Lyda Salmonova, mostra già la contaminazione espressionistica in molti momenti della vicenda in cui, mescolando abilmente L’uomo di sabbia” di Hoffman con il “William Wilson” di Poe, Rye rivisita cupamente il mito faustiano dell’anima al Diavolo.

Nel film, Baldwin, un povero studente praghese, si vende al Diavolo, impersonato dal misterioso e suadente giocoliere Scapinelli, per conquistare l’aristocratica e meravigliosa ragazza di cui è innamorato. Scapinelli mantiene la parola, ma Baldwin, subito dopo il successo ottenuto, vede la propria vita gradualmente rovinata dalla propria immagine speculare, un autentico alter ego, che lo perseguita apparendogli continuamente finché lo studente non lo uccide, commettendo un inconsapevole suicidio e consegnando così la propria anima nelle mani del Diavolo. Un film storicamente importante, non solo per segnare l’inizio dell’horror tedesco, ma anche per constatare, attraverso la scenografia della Praga medievale, l’inizio del cinema espressionista che si può dire coincida, almeno fino all’avvento del sonoro (1927) con il più esteso concetto di cinema horror, influenzandone poi il decorso storico e artistico.

Reduce dalla felice impresa dello Studente, Paul Wegener (1874 – 1948) affrontò, l’anno dopo, con esiti altrettanto felici, la tenebrosa leggenda ebraica del Golem, il colossale mostro chiamato in vita da Rabbi Loew per difendere dai pogrom gli abitanti del ghetto. Insieme al collega Henrik Galeen (1882 – 1949) Wegener diresse e interpretò, tra il 1914 e il 1920, ben tre versioni cinematografiche del mito del Golem. Di queste, le prime due (“Der Golem”, del 1914, e “Der Golem und die Tanzerin”, del 1917) sono andate irrimediabilmente perdute, mentre la terza (“Der Golem”, del 1920), ancor oggi visibile, è anche quella meglio riuscita e più fedele alla leggenda originale. Curiose, riguardo a questo film, le osservazioni di Georges Sadoul, il quale ricorda che, contrariamente ai primi due capitoli, le imponenti scenografie del film non erano espressioniste, mentre la splendida interpretazione di Wegener nei panni della creatura può certamente essere annoverata come uno dei modelli del successivo Frankenstein cinematografico.

Ma il manifesto del cinema espressionista tedesco prende forma e sostanza nel 1919, con Das Kabinett des Dr. Caligari” (“Il Gabinetto del Dottor Caligari”), opera la cui conoscenza è imprescindibile per la buona comprensione della nascita e del successivo sviluppo del cinema horror.

Diretto da Robert Wiene (1881 – 1938), un regista mediamente dotato che non riuscì più a superarsi, e sceneggiato dal bravissimo e versatile Carl Mayer (1894 – 1944), il quale a sua volta aveva tratto l’ispirazione dal poeta praghese Hans Janowitz, il film ambienta nel 1830 la vicenda del Dottor Caligari, scianziato da baraccone che, nel tendone di una fiera, presenta al pubblico Cesare (Conrad Veidt), un sonnambulo il quale – durante la “trance” -  predice a uno studente che vivrà sino all’alba. Poco dopo, il giovane viene assassinato e il suo amico,presente alla fiera, sospetta di Caligari, che nel frattempo ordina a Cesare di rapire una giovane donna (Lil Dagover). Inseguito e stremato dopo aver insanguinato la città con omicidi e violenze, il sonnambulo muore di stenti, Caligari viene arrestato e incarcerato, ma riesce a fuggire e si rifugia in un manicomio, di cui diventa ben presto il direttore. Nel finale, si chiarisce che l’intera storia è l’invenzione di un pazzo che descriveva Caligari come se si trattasse del direttore del manicomio in cui si trovava.

Reduci amareggiati dal primo conflitto mondiale, sia Mayer che Janowitz avevano originariamente concepito il film come una satira – denuncia dell’autoritarismo prussiano che trasformava gli uomini in altrettanti automi, spingendoli passivamente all’olocausto bellico, ma il finale semi – onirico appena descritto – aggiunto dal regista e dal produttore Erich Pommer – attenua il messaggio ribellistico dei due autori, lasciando comunque al film il carisma di un autentico capolavoro. Tra i molti aspetti non ancora ricordati per i quali “Caligari” è passato alla storia del cinema meritano una citazione speciale la scenografia e i costumi, ordinati appositamente da Pommer agli espressionisti del gruppo “Der Sturm”, al secolo i pittori Rohrig e Reimann, e all’architetto Hermann Warm, che all’epoca parlava dei film come di «disegni viventi», dei quali “Caligari”, con i suoi fondali interamente dipinti su tela, è a buon diritto il miglior prototipo mai creato nonostante la ristrettezza del budget a disposizione.

Per concludere questo discorso necessariamente approfondito sul “Caligari” di Wiene, vero e proprio Stretto di Gibilterra sull’oceano degli incubi e degli orrori cinemetografici, qualche constatazione eminentemente storica al limite della curiosità: il primo regista  del film doveva essere Fritz Lang (1890 – 1976) il quale, compresa subito la grande potenzialità scenografica offerta dalla sceneggiatura, si era già rivolto al pittore Kubin, il cui impedimento a collaborare a causa di altri impegni fece poi spostare la scelta del produttore Pommer (il fondatore della cinematografia germanica, già direttore della Decla, quindi “patron” della fusione tra la Decla e la rivale Bioskop e infine passato alla UFA) su Robert Wiene, che realizzò il film in tre settimane. Con lo slogan – inventato dallo stesso Pommer – Du musst Caligari werden (Tu diventerai Caligari), il film ottenne in tutto il mondo un successo straordinario fin dalla sua anteprima alla Marmorhaus di Berlino, il 26 febbraio 1920, superando facilmente le accuse relative ai suoi contenuti malsani addossategli in un primo tempo dalla critica francese.

Al di là delle letture storico – sociologiche succedutesi nel corso del tempo a proposito del contenuto profetico di questo film, va rilevata anche l’eccezionale interpretazione dei due attori, Werner Kraudd (1884 – 1959) con il cilindro e gli occhialoni  di Caligari, e Conrad Veidt (1892 – 1943), scheletrico precursore degli esistenzialisti con la sua maglietta nera, il quale emigrò con fortuna a Hollywood partecipando, nel ruolo del perfido maggiore tedesco Strasser, ad almeno un altro film immortale, quel “Casablanca” diretto nel 1942 da Michael Curtiz.

Non passano due anni che il cinema di Berlino produce un altro di quei film che a tutt’oggi rappresenta una delle vette più alte della filmografia universale e uno di quei dieci o quindici titoli che hanno fatto la storia del genere horror. Si tratta di “Nosferatu, eine Symphonie der Grauens” (“Nosferatu il vampiro”), che Friedrich Wilhelm Murnau (1888 – 1931), regista già affermato nel campo del fantastico (con “Der Knabe in Blau” e “Satanas”, del 1919, e con “Schloss Vogeloed” e “Phantom”, del 1921 – 1922) e destinato di lì a poco a diventare «il più grande cineasta del cinema muto tedesco insieme a Fritz Lang» (così Georges Sadoul), diresse nel 1922 sulla sceneggiatura di Henrik Galeen, il qualer adattò liberamente per il grande schermo la vicenda e i personaggi del “Dracula” di Bram Stoker.

Realizzato senza il consenso degli eredi Stoker, Nosferatu (“non morto” in rumeno) fece ricorso ad altri nomi per raccontare la storia del conte Orlock (Max Schreck) che riceve nel proprio castello sui Carpazi l’impiegato Hutter (Gustav von Wagenheim), ivi giunto per vendergli una casa in Germania. L’arrivo via mare di Orlock in una città anseatica provoca un’epidemia di peste, provocata dai topi che fuggono dal battello fantasma su cui ha viaggiato il Conte. In città, Hellen (Greta Schröder), moglie di Hutter, apprende che solo il sacrificio di una donna pura di cuore riuscirà a vincere il vampiro e una sera, allontanatasi dal marito, si decide a ricevere Nosferatu che però, innamoratosi della donna, si decomporrà al sorgere dell’alba.

La straordinaria potenza espressiva di questo bellissimo e terrificante film ha condizionato a lungo i giudizi dei critici e degli storici. In realtà, e al di là delle teorie interpretative che pure condussero a lungo il dibattito su opere che, come “Caligari” e lo stesso “Nosferatu”, esprimevano le ombre di larghi strati della società europea, il film di Murnau è un autentico capolavoro.

Superiore, secondo molti, addirittura al romanzo originale,Nosferatu” è certamente espressionista per il soggetto, meno però per l’ambientazione, realizzata in esterni desolati e cupi oltre ogni dire ma con scarso aiuto di quegli scenografi che fecero grande Caligari.

Con la truccatura spaventosamente eccessiva, il cranio calvo e aguzzo, le orecchie appuntite e i canini al centro della bocca, al posto degli incisivi (un trucco sotto il quale molti vollero vedere addirittura lo stesso Murnau invece dell’attore teatrale Max Schreck), “Nosferatu” conquistò il pubblico dell’epoca come una vera e propria sinfonia dell’orrore, ottenendo un enorme successo anche in Francia, dove entusiasmò i surrealisti, mentre, giudicato persino caricaturale in Inghilterra e negli Stati Uniti, contribuì notevolmente alla successiva serie dei “Dracula” made in Hollywood, dove peraltro, di lì a breve, si sarebbe trasferito anche Friedrich Murnau.

Written by  Alberto Rossignoli

Fonte

A. Sarno, “ Il cinema dell’orrore”, Tascabili Economici Newton, Roma 1996


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