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“Dopo la caduta di Troia, Antenore ed Enea partirono alle volte della penisola italica. Antenore giunse nella pianura veneta, dove fondò Padova, mentre Enea e i suoi compagni giunsero in Campania, e poi si diressero verso il Lazio. Latino accolse di buon grado i Troiani, poiché suo padre gli aveva preannunciato che l’unione di sua figlia Lavinia con uno straniero avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa. Enea quindi sposò la figlia del re e fondò una città che chiamò Lavinium, in suo onore. Dalla loro unione nacque Ascanio(1).
Turno, re dei Rutuli, cui era stata promessa in sposa la principessa Lavinia, mosse guerra contro i Troiani e i Latini. I Rutuli furuno sconfitti ma il re Latino cadde in combattimento, così Enea divenne re del popolo formato dall’unione di Latini e Troiani. Successivamente anche Enea morì in battaglia nello scontro con il re etrusco Mezenzio, cui i Rutuli avevano chiesto aiuto. Lavinia quindi regnò al posto del giovane Ascanio che, una volta cresciuto, fondò Albalonga. Dal re Proca(2) nacquero Numitore e Amulio, rispettivamente padre e zio di Rea Silvia, madre di Romolo e Remo.
Amulio spodestò il fratello Numitore e costrinse Rea Silvia a farsi vestale, così da non doversi preoccupare di eventuali rivendicazioni. Tuttavia, Rea Silvia, dopo aver giaciuto con il dio Marte, generò due gemelli, Romolo e Remo. Amulio quindi fece imprigionare la vestale e ordinò che i due bambini fossero gettati nel Tevere, ma Romolo e Remo, cullati dalla corrente del fiume, furono tratti in salvo da una lupa che li allattò, fino a che un pastore di nome Faustolo, li trovò e li portò dalla moglie che si prese cura di loro.
Un giorno, mentre i due giovani partecipavano alla festa dei lupercali, furono assaliti da due banditi che catturarono Remo e lo portarono al cospetto di Amulio. Questi lo accusò di aver rubato nei campi di Numitore, ma Remo venne liberato dai pastori guidati da Romolo e Amulio fu ucciso.
Numitore riconobbe i nipoti che il fratello aveva cercato di uccidere e venne restaurato dal popolo sul trono di Albalonga. A questo punto, Romolo e Remo fondarono una nuova città e lasciarono decidere agli dèi chi dei due fratelli vi avrebbe regnato. Romolo e Remo si recarono rispettivamente sul Palatino e sull’Aventino per osservare il volo degli uccelli. Remo disse di aver visto alzarsi in volo sei avvoltoi, mentre Romolo disse di averne visti dodici: il primo voleva regnare per aver visto per primo gli uccelli, mentre il secondo per averne visti di più. Tra le due fazioni scoppiarono dei tumulti e Remo perse la vita(3). Romolo quindi prese il potere, fortificò il Palatino e compì sacrifici agli dèi latini e al dio greco Ercole. Era il 21 aprile 753(4)”.
Questa leggenda, riportata sia da Virgilio nell’Eneide (fino all’uccisione di Turno), sia da Livio nella sua opera “Ab urbe còndita”, in realtà non esiste prima del IV secolo a.C. ed è il risultato della fusione di due leggende, presenti in autori più antichi: quella di Enea, che pone la fondazione di Roma nel XII secolo, vicino alla distruzione di Troia, e quella dei due gemelli allattati dalla lupa, che la colloca a metà dell’VIII secolo. La dinastia dei re albani, invece, è stata inventata per collegare tra loro le due tradizioni e non dover così rinunciare a una delle due e di conseguenza alle origini divine di Romolo.
La fonte più antica che parla di Roma è la Teogonia (inizio VII secolo a.C.) in cui Esiodo racconta che Odisseo arrivò nel Lazio, si unì a Circe e generò Latino, il capostipite dei Latini; Ellenico di Lesbo e Antioco di Siracusa (fine V secolo a.C.), invece, parlano di una fondazione di Roma da parte di Enea.
Il primo autore latino a scrivere un’opera storica su Roma e a raccontare la storia di Romolo e Remo fu Fabio Pittore, intorno al 200 a.C., e le sue fonti furono Timeo, vissuto un secolo prima, e gli annales pontificum, che i pontefici iniziarono a redigere solo nel V secolo inoltrato.
Secondo lo storico H. Strasburger, la leggenda dei gemelli allattati da una lupa è una leggenda greca antiromana, risalente al periodo dell’espansione di Roma in Italia meridionale, poiché insiste su alcuni particolari disonorevoli della tradizione. Secondo questa versione, infatti, la nutrice che alleva i gemelli è una prostituta, la nascita di Roma è legata a un fratricidio (Romolo uccide Remo), i Romani, per assicurarsi una discendenza, rubano mogli e figlie ai Sabini (ratto delle Sabine), e per accrescere la popolazione danno asilo ad assassini, schiavi fuggiti, ladri e briganti.
È certo che già tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., la leggenda dei gemelli esisteva ed era accettata a Roma. Da Livio (X, 23) sappiamo che nel 296 alcuni edili di origine plebea dedicarono una statua di bronzo ai gemelli: “Lo stesso anno, gli edili curuli Gneo e Quinto Ogulnio citarono in giudizio alcuni usurai, condannati poi alla confisca di parte del patrimonio. Col denaro che le casse dello Stato ricavarono furono costruite le porte di bronzo del tempio di Giove Capitolino, […] la statua dei gemelli fondatori di Roma sotto le mammelle della lupa…”. Le rappresentazioni di questa statua ricorrevano anche sulle monete romano-campane tra il 269 e il 266 a.C.
Lo storico Peter Wiseman suppose che lo sdoppiamento del fondatore in una coppia di gemelli simboleggiasse la parità tra patrizi e plebei, raggiunta nel 367 a.C. grazie alle leggi Liciniae-Sextae, con lo scopo di radicare nel passato le rivendicazioni dei plebei. Questa teoria non è dimostrabile, ma allo stesso tempo non può essere smentita concretamente. La più antica testimonianza conservata della leggenda si trova su uno specchio fabbricato a Preneste e trovato a Bolsena, databile tra il 350 e il 325 a.C., anni decisivi che porteranno all’ascesa della plebe. Riguardo le raffigurazioni presenti su questo specchio, si accese una forte polemica tra Wiseman e Carandini. Secondo lo storico britannico questo specchio rappresenta la premessa della leggenda dei gemelli e non la leggenda stessa: i due gemelli non sono Romolo e Remo, ma due divinità minori, i Lares praestites, di cui parla Ovidio nei Fasti, genarati da una ninfa del Palatino e dal dio Mercurio che le usò violenza. Carandini, invece, crede che i due gemelli siano proprio Romolo e Remo, e ha contestato la teoria di Wiseman apportando varie motivazioni, tra le quali la non attestazione dell’allattamento dei Lari da parte di un animale e l’evidente supremazia del gemello di destra, rappresentato con la lancia, inspiegabile nel rapporto paritario dei Lari. A ogni modo, anche se la teoria di Carandini sembra più probabile, la ricostruzione del Wiseman riguardo lo sdoppiamento del fondatore resta comunque valida.
La leggenda troiana sulla fuga di Enea in Italia, invece, si sviluppa nel VI secolo a.C. Già Stesicoro (VI secolo), Timeo ed Ellenico di Lesbo (V secolo) parlano della venuta in Occidente di Enea. Sui vasi greci di importazione e sui vasi etruschi, imitazione di quelli greci, ricorre spesso la rappresentazione della fuga di Enea da Troia, e la città cui si fa riferimento probabilmente è Lavimium e non Roma, che comparirà in una leggenda successiva. Al contrario, le statuette di terracotta ritrovate a Veio, che prima si riteneva fossero state prodotte dagli stessi abitanti nel IV secolo, recentemente è stato dimostrato che sono successive all’occupazione di Veio da parte dei Romani, e che furono prodotte da quest’ultimi per rivendicare la loro discendenza da Enea.
Sulla base di questi nuclei leggendari, trasmessi e rielaborati tramite icarmina convivalia e le rappresentazioni teatrali, gli storici antichi hanno cercato di ricostruire le origini di Roma, aggiungendo molti particolari e dati spesso folkloristici, presenti in tutte le civiltà del mondo antico, come l’esposizione del neonato e il salvataggio da parte di una fiera che lo nutre. Sicuramente la loro narrazione è stata profondamente influenzata dalla storiografia greca, dalla contrapposizione tirannide/libertà (Tarquinio Severo sarà descritto con aggettivi tipici dei tiranni) e dal modello della κτίσις (ktisis),cioè della fondazione dal nulla da parte di un eroe, per togliere dall’oscurità le origini di una città importante.
È fondamentale sottolineare anche che, come sosteneva Emilio Gabba, gli storici antichi non hanno utilizzato tutti i dati di cui disponevano, ma hanno escluso dalla tradizione letteraria molti dati, giunti fino a noi attraverso altre fonti, scegliendo solo i dati funzionali alla ricostruzione storica, tesa a enfatizzare la continua e inarrestabile ascesa di Roma.
La storia leggendaria riguardo le origini di Roma per molti secoli fu accettata in modo del tutto acritico, e gli storici antichi non vennero mai messi in discussione. Solo a partire dal 1600 con Perizonius e successivamente nel corso dell’Ottocento con Niebuhr, Mommsen e Paris l’approccio nei confronti delle fonti antiche cambiò: gli studiosi erano tutti più o meno scettici riguardo le tradizioni sulle origini di Roma e i più estremisti, come E. Paris, considerato il padre dell’ipercritica, ritenevano che esse fossero completamente inventate e prive di una base documentaria e di una tradizione orale, che nacque non prima del IV-III secolo a.C. Secondo Paris tutta la storia di Roma fino all’incendio gallico del 390 a.C. è stata inventata dai Romani, spinti dal desiderio di emulare la storia greca.
Dopo l’unità d’Italia furono effettuati i primi scavi, condotti dall’archeologo Giacomo Boni, nell’area del Foro romano e sul Palatino, e i ritrovamenti sembrarono confermare in parte la tradizione. Sotto il lapis niger, fu trovata un’iscrizione arcaica con la parola REX, databile al VI secolo a.C., e sotto il tempio di Agostino e Faustina furono rinvenute venticinque tombe, databili tra il X e il IX secolo a.C., che confermavano l’esistenza di un periodo regio ma senza dare nessuna informazione su quanti e chi fossero stati tali re.
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale gli scavi si interruppero e ripresero negli anni cinquanta del secolo scorso con gli archeologi svedesi Gjerstad e Gierow. Con la ripresa delle ricerche archeologiche, si pose il problema del confronto dei dati archeologici con quelli letterari e la discussione si focalizzò intorno a due posizioni antitetiche, una sostenuta da coloro che ritenevano possibile un incrocio delle due fonti, come Carandini e Grandazzi i quali affermavano che i dati archeologici potessero confermare la tradizione letteraria; l’altra da coloro che pensavano che il dato archeologico, non essendo univoco, potesse essere interpretato in vari modi e che fra tutte le interpretazioni possibili si tendesse a prediligere quella che confermava la fonte letteraria, come Gabba e Pouchet.
Quest’ultimi ammettevano che nella tradizione letteraria giunta fino a noi ci fosse un nucleo con una base di verità, ma ritenevano che fosse molto difficile da dimostrare, e che fosse quasi impossibile stabilire se una determinata notizia fosse stata o meno tramandata correttamente senza interruzione della tradizione orale, soprattutto considerando il vuoto cronologico tra l’VIII secolo, epoca in cui la tradizione colloca la fondazione di Roma, e il IV secolo, quando questa tradizione si formò.
È ovvio che nel corso dei secoli, la tradizione orale è stata modificata, ampliata e reinterpretata per vari scopi, e lo stesso Mommsen affermava che era fondamentale analizzare i vari aspetti della tradizione: la formazione, la stratificazione e i possibili condizionamenti politici, sociali, religiosi e letterari. Se possiamo dimostrare che la trasmissione orale ininterrotta non può esserci stata, allora, ogni corrispondenza tra il dato archeologico e quello letterario è solo una coincidenza.
Peraltro le informazioni certe, ricavate dagli scavi fino a quel momento, avevano sempre smentito la tradizione. Secondo i dati archeologici, infatti, nell’Età del Bronzo e del Ferro, nella zona dei colli Albani non è mai esistita una città chiamata Albalonga, e la città di Lavinium, che Enea avrebbe fondato nel XII secolo, in realtà non era molto più antica di Roma.
Cosa accadde sul Palatino e sugli altri colli a metà dell’VIII secolo? Cosa ha rivelato l’archeologia?
Nel tardo Bronzo (XI – X secolo a.C.) in Italia centrale (Pianura Padana, Toscana e alto Lazio fino al Tevere) era presente la cultura protovillanoviana. In questa epoca nacquero i primi abitati fortificati naturalmente, di piccole dimensioni e molto vicini tra loro. Con l’Età del Ferro (intorno al 900 a.C.) iniziò la fase villanoviana: la popolazione si concentrò in un numero ridotto di abitati, ma di dimensioni maggiori. I siti in cui è stato constatato questo salto di qualità erano gli stessi in cui poi sorgeranno le principali città etrusche.
Nel Lazio a sud del Tevere la situazione era simile, ma lo sviluppo fu più graduale e lento: i primi centri proto-urbani cominciarono a formarsi tra l’830 e il 770 a.C. In questa fase (laziale 2B) compaiono anche le prime tombe principesche, come quelle di Preneste, che evidenziano una differenziazione sociale netta. Queste tombe, infatti, sono molto sfarzose e presentano oggetti d’importazione greca e fenicia: l’aristocrazia locale ha assorbito gli usi di quella greca, come la cultura del simposio, e compare anche la scrittura, prima in Etruria e successivamente nel Lazio.
Gli scavi di fine Ottocento, oltre alle tombe cui ho accennato in precedenza, portarono alla luce anche dei villaggi di capanne risalenti al tardo Bronzo – inizio Ferro, sul Palatino e sul Quirinale; mentre lungo il pendio e ai piedi del Campidoglio (a nord del Foro romano, di fronte al Palatino) furono ritrovati reperti archeologici più antichi, risalenti al XIV secolo (pieno Bronzo).
Secondo l’archeologo Einar Gjerstad, alcune capanne furono istallate anche nel Foro e il cambiamento radicale si sarebbe verificato nel 575 a.C. con l’eliminazione di queste capanne, la pavimentazione del Foro e la fusione delle tre comunità di Palatino, Quirinale e Campidoglio, che scelsero come luogo pubblico comune il Foro. Questa nascita, simile a quella delle poleis greche (κτίσις) è detta stadtgründung(fondazione razionale e volontaria della città).
Muller-Karpe, intorno al 1955, avanzò un’altra ipotesi secondo la quale il fenomeno non fu razionale e volontario, ma spontaneo e graduale (stadtwerdung). Lo storico tedesco pose la pavimentazione del Foro nel 625 a.C. e successivamente, negli anni Sessanta e Settanta, alcuni studiosi, come Giovanni Colonna, dimostrarono che aveva ragione.
Negli stessi anni, Carmine Ampolo cercò di superare l’opposizione tra le due teorie, proponendo una ricostruzione che ammetteva alcuni elementi di entrambe: prima ci sarebbe stata l’aggregazione spontanea e in seguito un atto di autorifondazione come comunità unica per sinecismo. Secondo Ampolo il nucleo da cui si espanse Roma fu il Palatino, con la successiva fusione fra questo colle e la Velia nel corso del IX secolo, fase in cui il Foro era utilizzato come sepolcreto. Successivamente la comunità si espanse sull’Esquilino, abbandonando il sepolcreto. Questa comunità più grande (comunità del Septimontium) l’11 novembre celebrava un rito, con annessa processione che includeva tutti i colli, escluso il Quirinale e il Campidoglio.
L’unione della comunità del Septimontium con quella degli altri due colli si verificò successivamente, quando nel Foro scomparvero le tombe e cominciarono a delinearsi le prime capanne, verso la metà del VII secolo a.C.
A questo punto il quadro sembrava impostato nella direzione giusta, ma tutto viene rimesso in discussione negli anni Ottanta e Novanta, quando le nuove scoperte archeologiche imposero anche la rilettura di quelle vecchie.
Lo studioso americano Albert Ammerman, rielaborò le stratigrafie in base a cui Gijerstad aveva ipotizzato la presenza di capanne nel Foro. Secondo Ammerman queste capanne non sono mai esistite: lo strato è stato male interpretato e i resti trovati si riferiscono a capanne di altri luoghi, portati lì per colmare la depressione di circa due metri, che si era formata a causa dell’impaludamento.
Questo significa che la pavimentazione del Foro non fu la fase finale della fusione e che la fusione stessa non fu graduale, come riteneva Ampolo, ma fu immediata e avvenne nel momento in cui le due comunità decisero di colmare la depressione che le separava.
Il carattere artificiale della nuova comunità si deduce dal fatto che era divisa in tre tribù, ciascuna formata da dieci curie; questi raggruppamenti in clan familiari (curie) non sarebbero stati ripartiti così equamente se la fusione fosse stata graduale.
Un altro indizio sull’artificiosità della creazione di una comunità si può ricavare dal calendario romano più antico, sicuramente precedente al 509 a.C., poiché in esso mancano il culto di Giove Capitolino, il più importante in epoca storica, istituito proprio in quell’anno, e i culti di Fortuna e di Mater Matuta, istituiti, secondo la tradizione, da Servio Tullio. Questo calendario, così complesso da presupporre l’uso della scrittura, fu redatto per uso interno e fu reso pubblico successivamente.
Il dibattito si riaccende quando l’archeologo Andrea Carandini mette in luce un tratto di muro tra il Palatino e la Velia, databile tra il 730 e il 720 a.C. Questo muro fu ricostruito tre volte, l’ultima intorno al 550, poi alla fine del VI secolo, fu ricoperto con una colmata per bonificare la valle tra i due colli, dove scorreva un torrente. Al suo posto fu costruita la “via sacra”, che in epoca storica sarà percorsa dai cortei.
Secondo Carandini, questo muro è il pomerium costruito da Romolo e corrisponde quindi all’atto di fondazione della città, confermando clamorosamente la tradizione che pone la nascita di Roma proprio a metà dell’VIII secolo; Fabio Pittore, infatti, la collocava nel 747, e Cincio Alimento nel 728.
Tacito, negli Annales (XII, 24), fa un excursus sul pomerium, e racconta che Romolo, partendo dalle falde del Palatino, tracciò il confine della città, dove furono posti, a intervalli regolari, dei cippi di pietra.
Ma se Carandini è convinto di aver trovato un tratto di muro costruito da Romolo, qualcosa non torna… Romolo allora usò i cippi o costruì il muro per delimitare il pomerium? È evidente che quella di Tacito è una ricostruzione a posteriori; probabilmente i cippi vennero messi in un’epoca successiva, quando il pomerium venne allargato, per apprezzare la differenza a fini propagandistici. D’altronde questa era una pratica comune e lo stesso Tacito racconta che al suo tempo (55 – 120) erano ancora visibili i cippi che delimitavano il Palatino, posti da Claudio settant’anni prima, che, per un tratto, coincidono con il muro trovato da Carandini. La testimonianza di Tacito ci informa soltanto su ciò che pensavano i Romani ai suoi tempi, e non su ciò che è successo realmente nell’VIII secolo a.C. Quindi, il pomerium di Romolo e quello del re sabino Tito Tazio, che includeva anche i colli Campidoglio e Quirinale, sono posteriori alla fusione delle due comunità, e tutta la tradizione che parla di una comunità sabina sul Quirinale è tarda ed è stata costruita sulla base di una pseudo-etimologia che legherebbe il colle Quirinale alla città sabina Cures; tant’è vero che è stato dimostrato dai linguisti che il nome Quirinalis deriva da Quirinus, il dio protettore delle curie, e non ha niente a che fare con la città sabina.
Quindi come possiamo essere sicuri che questo muro non avesse avuto una funzione diversa da quella ipotizzata?
È chiaro che ci troviamo di fronte a un dato archeologico non interpretabile univocamente, e la teoria sostenuta da Carandini è la meno probabile, se non addirittura da escludere. Un’ipotesi plausibile è che si trattasse semplicemente di una diga, dato che correva lungo un torrente. Inoltre, se si trattasse davvero del pomerium di Romolo, non si spiegherebbero le capanne trovate sul Palatino, datate prima del 720 a.C.
La coincidenza cronologica tra il muro trovato da Carandini e la tradizione letteraria è casuale, poiché non c’è una tradizione ininterrotta che colloca la fondazione di Roma nell’VIII secolo. Negli annali dei pontefici, che tutti gli autori romani hanno consultato, non era riportata la data di fondazione di Roma, e gli stessi pontefici consideravano come data di riferimento il 509 a.C., anno in cui furono cacciati i re da Roma. Gli storiografi antichi, perciò, non avevano la minima idea di quale fosse la data di fondazione di Roma: Dionigi di Alicarnasso, Fabio Pittore, Catone e Polibio, la collocano nell’VIII secolo, con scarti di 20/25 anni; Timeo dà come data di fondazione l’813, mentre Ennio e Nevio la collocano nell’XI secolo. Il divario tra le datazioni è troppo ampio per ammettere un ricordo comune ed è chiaro che si tratta solo di congetture e di calcoli grossolani; e di questo ce ne rendiamo facilmente conto se ragioniamo sui numeri. Tutti gli storiografi romani hanno calcolato a ritroso, partendo dal 509, il tempo occupato dal regno di sette re, considerando 35 anni di regno per ciascun re. Varrone, per esempio, dice che Roma è stata fondata nel 753: se da questa data sottraiamo gli anni di regno coperti da sette re, cioè 244, arriviamo appunto al 509. Nella Roma arcaica, la monarchia non era ereditaria; i re erano eletti, e salivano al trono da adulti, quindi, se secondo la tradizione quattro dei sette re non sono morti di vecchiaia, è impossibile che sette re siano riusciti a coprire i 244 della monarchia.
Lo studioso Theodor Mommsen, già nell’Ottocento, aveva capito che gli storici antichi erano arrivati a stabilire la data di fondazione di Roma per mezzo di calcoli fatti a tavolino, senza nessun fondamento storico e molti storici lo pensano ancora oggi. Come abbiamo visto l’archeologia colloca la fondazione di Roma nella seconda metà del VII secolo a.C., e anche se il tratto di muro messo in luce da Carandini sembra confermare la tradizione, non vi è dubbio che si tratta di una evidente, seppur suggestiva, coincidenza.
(1) Livio fornisce due versioni, la prima diceva che Ascanio era giunto nella penisola italica con il padre, la seconda invece affermava che fosse figlio di Lavinia.
(2) Un re della dinastia di Albalonga (re albani).
(3) Un’altra versione più diffusa, sempre riportata da Livio, racconta che Romolo avrebbe ucciso il fratello perché aveva osato scavalcare le mura appena erette.
(4) Data riportata da Varrone.