Le parole dicono poco…

Creato il 26 febbraio 2012 da Illcox @illcox

Il Caffè Reggio è stato per un anno il mio piccolo santuario dove, a fine serata, andavo a trascorre un’oretta rilassandomi con un caffè, un cappuccino, una birra, qualcosa da leggere e tanta, tanta musica. E’ stato soprattutto il luogo dove ho praticato uno dei miei hobby preferiti. Quello che gli americani chiamano people watching. In pratica, osservare le persone. Il Caffè Reggio si trova su una delle mie strade preferite del Village, McDougal Street. E’ a un paio di isolati da dove allora lavoravo come camerire, Il Bocconcino. Un ristorante italiano su Sullivan Street il cui proprietario era un pazzo. Romano, burino, ex paparazzo, invischiato in mille cose e allo stesso tempo inconcludente. Come se non bastasse faceva anche la cresta sulle mance che sarebbero toccate a noi camerieri. Un tipo che, con un ristorante a disposizione, toccava il cielo con un ditto quando si mangiava un panino con burro e alici, preparato con le sue stesse manine, appoggiato al bordo del lavandino della cucina. Appunto, un pazzo. Purtroppo non avevo tante alternative. Il mio inglese non era il massimo, non avevo un permesso di lavoro e in qualche maniera dovevo sostentarmi. E’ stata un’esperienza. Sicuramente. Una che, però, preferirei non ripetere.

Quasi ogni sera, dopo aver finito il mio turno, mi facevo a piedi quei duecento metri che separavano il Bocconcino dal Caffè Reggio. Entravo e mi sedevo al mio posto preferito. Un tavolino di marmo nero con una poltroncina di velluto rosso vicino una delle vetrine che davano sulla strada. La migliore posizione possible per fare del people watching. A tenermi compagnia, da buon intellettuale, la Gazzetta dello Sport che, dopo aver stretto una sorta di amicizia con un edicolante pachistano, non acquistavo più. Il tipo ormai me la regalava. Da lui compravo le sigarette e visto che a quell’ora i giornali sarebero andati buttati, il buon pachistano mi dava la Gazza in omaggio con le mie Marlboro. Inoltre avevo sempre il mio l’inseparabile cd player, con tanto di cuffiette, per ascoltare la “mia” musica. Stiamo parlando un’epoca pre mp3, i-pod, i-pad, i-phone, i-everything. Il Caffè Reggio, per chi non lo conoscesse, è uno dei ritrovi storici di New York dove sono passati alcuni dei più grandi musicisti, scrittori, poeti e artisti di tutti i tempi. Tutto in legno, piccolino, con tavolini, sedie e poltroncine diverse l’una dall’altra. Una gigantesca macchina del caffè degli inizi del ‘900 al centro del locale. Affreschi, quadri e spcchi sui muri. Luci basse, musica bassa, toni bassi, voce bassa. In pratica un posto per nani. Si trova nel cuore del Village, quel quartiere della grande mela che negli anni ‘60 e ‘70 è stato la culla della beat generation. Tante volte mi soffermavo a guardare la strada dalla vetrina e provavo ad immaginarmi cosa volesse dire vivere in quel quartiere 40 anni fa. I giovani, il loro modo di vestirsi, i loro ideali, la loro musica, le loro droghe e, soprattutto, le loro speranze. Chissà quante volte gente come Hendrix e Dylan saranno passati davanti a quella stessa vetrina per andare a suonare pochi metri più avanti al Caffè Wha’ o al Bitter End. Oppure scrittori come Kerouac e Ginsburg avranno camminato lungo McDougal Street per andare al Cafè Espaniol a fare dei reading. Chissà quante volte saranno andati al Caffè Reggio per una chiacchierata, meditare, rilassarsi o semplicemente per farsi passare una sbornia. Chissà in quante occasioni una delle canzoni che ancora oggi cantiamo a squarcia gola, o uno dei libri che a tanti anni di sistanza continuiamo a leggere sono nati su uno di quei gelidi tavolini di marmo. Avessi una macchina del tempo tornerei a quegli anni. Mi farei una camminata per il Village e probabilmente mi avrebbero preso per un pazzo perchè sarei stato l’unico ad eccitarmi come una scimmia se avessi incontrato Hendrix e Dylan. All’inizio della loro carriera, è normale, nessuno li conosceva. Erano due musicisti come tanti altri. Emergenti, dotati, ma niente di più. Per me, invece, sono due miti. Sarei corso da loro, li avrei presi in disperte e gli averi detto “Jimie, ti adoro, il tuo talento è immenso. Ti prego, in futuro, cerca di fare attenzione con le droghe o andrai a finire male. Bob anche tu sei un altro mio mito. Non ti dico di fare attenzione alle droghe, ma in futuro, cerca di curare meglio il tuo aspetto perchè ora sei anche un bel giovanotto, ma da vecchio sembrerai un Picasso! Inoltre, amo le tue canzoni, ma quando parli non si capisce una mazza!”. Ovviamente e giustamente mi avrebbero mandato a cagare, ma io l’avrei detto per il loro bene. Vagli a spiegare che vieni dal futuro e che sei arrivato con una macchina del tempo!
Tornando al mio hobby, dalla mia postazine privilegiata, osservavo e ascoltavo tutti quelli che mi capitavano a tiro. Non è questione di essere curiosi, invadenti o pettegoli. Bensì lo trovo un modo per cercare di capire la gente che mi circonda. Una specie di classe all’aperto sul tema: Esseri Umani, chi sono? Un po’come fanno quegli animalisti che, per studiarli da vicino, vivono con le scimmie nel loro habitat. In particolare mi interessa osservare il linguaggio del corpo, i gesti, le espressioni, il non ditto. Dettagli che possono rivelare molto di più delle parole. Le parole, a volte, dicono poco. Un esempio emblematico? Una sera d’estate ero seduto al solito tavolino e al mio fianco c’era una coppia. Entrambi fra i 25 e i 30 anni. Stavano discutendo. Lei era insodisfatta di lui e lui era stanco di lei. La ragazza era molto presa, cercava di far capire al suo “fidanzato” quanto fosse importante che lui non la desse per scontata. Insisteva molto su questo punto e nel farlo lo fissava, protesa in avanti, con le mani nervosamente giunte tanto che la punta delle dite erano quasi bianche per quanto le stringeva. Lui l’ascoltava ma raramente la guardava negli occhi. Era appoggiato allo schienale della sedia. In una mano aveva il cellulare e con l’altra giochicchiava con il mazzo di chiavi. Lei ogni tanto abbassava lo sguardo. A tratti sembrava avere gli occhi leggermente velati. In quei frangenti, cercando di non farsi notare, lui alzava gli occhi al cielo come a dire “Che palleeeeeeeeee, ma che cazzo vuoi?”. Lei sembrava non accorgersi di nulla. Io continuavo ad osservare. Il dialogo era quasi unidirezionale. Nel senso che la ragazza parlava e lui rispondeva con brevi frasi. Ma il tipo era un bravo attore. Cercava di consolarla con qualche complimento, ogni tanto le faceva un sorrisino, le dava ragione. Probabilmente era stanco di lei ma non aveva la forza, le palle o l’onestà per mettere un punto. Forse preferiva trascinare questa situazione incurante del fatto che la sua ragazza stesse soffrendo a causa sua. Lei sembrava cascarci. Forse anche la ragazza voleva cercare di mantenere in vita un’illusione che, per quanto triste, era comunque qualcosa di cui forse aveva bisogno. Lei continuava a parlare, a spiegare, a chiedere. Lui continuava a far finta d’ascoltare. Aveva lo sguardo perso, distratto, annoiato. Quando la guardava negli occhi sembrava che stesse attraversandola con lo sguardo, come se la ragazza fosse trasparente. Ogni tanto, quando lei abbassava gli occhi, lui con la mano sotto il tavolo, buttava un’occhiata per controllare il cellulare. Poi rialzava lo sguardo e faceva un sorrisino o annuiva sconslato o buttava li una frase ad effetto per cercare di calmarla, rassicurarla, consolarla. La ragazza, però, non si accorgeva di niente. Non aveva visto i suoi occhi rivolti al cielo, non aveva visto il cellulare nascosto sotto il tavolino e il suo sguardo curioso che cercava di leggere un messaggio, non aveva visto il suo ragazzo buttare un’occhiata alla tipa seduta dall’altra parte della sala. Lei era concentrata solo sulle parole che stava dicendo, su quello che stava cercando di comunicare. Un fiume in piena. Migliaia e migliaia di parole espresse con emozione e razionalità allo stesso tempo. Discorsi articolati, sensati che avrebbero dovuto far breccia nel cuore del suo ragazzo. Era troppo presa da quello che stava dicendo e prestava orecchio, con grande attenzione, alle brevi e false repliche del suo ragazzo. L’unica cosa che le interessava erano le parole. Un conversazine che fatta per telefono non avrebbe fatto una grinza. Il loro dialogo sarebbe sembrato perfetto. Due persone che si confrontano. Una scontenta che si lamenta, l’altra che ascolta e dice di aver capito. Ma li, uno di fronte all’altro, quelle parole erano svuotate dai gesti e dalle espressioni che lei non aveva visto o che forse non aveva voluto vedere.

Dopo circa un’ora i due sembravano aver raggiunto un punto d’intesa. Un bacio riappacificatore con lei che si allunga in avanti per baciarlo e lui che “aspetta” senza andarle incontro. Lei con gli occhi chiusi. Lui che li riapre ancora prima che il bacio finisca. Lei che mentre lo bacia gli accarezza la guancia. Lui che prende la sua mano, la stringe, ma poi l’allontana dal suo volto per appoggiarla sul tavolino. Lei che si alza e lo salute con un “love you”. Lui che risponde con un “Me too”. Lei che si gira per andare via. Lui che butta un sospirone liberatorio. Lei che con la mano lo saluta dalla strada attraverso la vetrina. Lui che risponde con un gesto del capo, un sorriso di circostanza e, appena lei scompare dal suo sguardo, alza le braccia al cielo come a dire “Finalmenteeeeee!!!” Non li ho più rivisti e se devo provare ad indovinare, con molta probabilità, lui l’avrà mollata. Oppure si saranno addirittura sposati, avranno dei bambini, saranno contenti. Dubito. Non lo so. So solo che quella sera, dopo un’ora dialogo e migliaia di parole dette lei era andata via credendo di aver risolto il problema e lui credendo di essersi salvato in calcio d’angolo. La realtà è che, a volte, le parole dicono poco.


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