La mutazione del linguaggio si è avuta quando il lavoro – non solo quello in fabbrica – ha cominciato ad essere svalutato in favore dei fattori monetari o di rischio e il berlusconismo nascente ha imposto la parola come una dorata panacea per il suo blocco sociale. E’ stata un’azione molto astuta: nei primi decenni del dopoguerra il settore terziario aveva accumulato molto grasso sotto la pelle, anche grazie alle strizzate d’occhio fiscali della Dc nei confronti di ceti emergenti che non dovevano finire nel paiolo dell’opposizione. Avere un negozio, un albergo o un’attività nell’artigianato di servizio, significava spesso godere di un reddito reale consistente, di molto superiore a quello del lavoro dipendente e non di rado anche delle attività professionali. Ma a questa posizione di censo, in una società arretrata come quella italiana, mancava ancora una sorta di “legittimazione” sociale che non sempre poteva essere superata dalle nuove generazioni dotate del fatale pezzo di carta. Così il berlusconismo impose una parola neutra rispetto al tipo o alla grandezza dell’attività e in qualche modo affine a quella guida del boom economico, ossia al venerato industriale. Todos caballeros, tutti imprenditori.
Naturalmente, anche se la legislazione ha finito per incorporare questa mutazione linguistica, l’imprenditoria, nel suo significato storico e tecnico non ha niente a che vedere l’imprenditore generico di marca berlusconiana. Benché vi sia qualche discussione in merito non c’è dubbio che la definizione più esaustiva e pregnante sia stata data da Schumpeter: “La caratteristica che definisce l’imprenditore è semplicemente il fare cose nuove o fare cose che si stanno già facendo in un modo nuovo… La ‘cosa nuova’ non deve essere spettacolare o d’importanza storica. Non c’è bisogno che sia l’acciaio Bessemer o il motore a scoppio. Può essere la salsiccia Deerfoot”. Lascio a voi giudicare quale sia la percentuale di imprenditori veri sulla massa che si compiace di chiamarsi così. E del resto l’alienazione della parola da un’attività concreta se libera il fruttarolo dalla maledizione delle cassette di legno, la rinchiude nella privazione di senso del pensiero unico, come dimostra il fatto che chiunque di noi avesse voglia e disponibilità di pagare le quote di una qualche associazione camerale sarebbe tout court imprenditore anche senza fare nulla.
La cosa notevole nella definizione di Schumpeter è che l’imprenditore non ha niente a che vedere in sé col capitalista e distingue tra valore generale di un’attività e il semplice profitto escludendo di fatto dall’imprenditorialità la parte preponderante dell’economia attuale fatta di operazioni speculative a breve termine, di ingressi nei casinò finanziari, di giochetti azionari o commerciali. Non è un caso che la parola entrepreneur (presa di peso dal francese) sia pochissimo usata nella lingua del capitalismo, ovvero l’inglese, che la sostituisce con businessman o manager o ancora con empolyer, datore di lavoro. Forse orientando pietisticamente la cattiva coscienza perché entrepreneur fu coniato dal finanziere francese Cantillon che vi associava anche ladri, donne di malaffare e banditi che dopo tutto hanno attività in proprio. Il che non differisce molto dalla realtà attuale anche se sotto altra forma. Schumpeter è chiaro accenna attraverso la sua definizione a una dinamica economica diversa nella quale occorre distinguere tra lavoro e speculazione, creazione e organizzazione.
Comunque sia, una volta accertata l’origine e lo scopo sociale e politico di una parola imposta dai media, la prima cosa da fare è decostruirla, rifiutarne l’uso in tutti i casi in cui sia possibile. Ritornare al lavoro è anche ridare senso alle attività, senza annegarle nella notte dove tutte le vacche sono nere. Se l’imprenditore viene definito in ragione del profitto e delle sue dinamiche, non della sua attività, è lì che bisogna cominciare a fare breccia dentro l’atonia del pensiero unico e dei suoi presupposti e ricominciare a collegare i brandelli dispersi di una società.
Nota. Imprenditore deriva dal latino prehendere, composto da pre in origine col significato di “di fronte” e dall’antica radice indoeuropea had con il significato di mano, dunque di afferrare o di abbracciare anche se questo significato meno impositivo e più affettivo si è via via spostato sul composto cum prehendere, cioè il nostro comprendere.