Le parole vietate: il politicamente corretto che sostituisce la realtà

Creato il 29 marzo 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Settimana ingarbugliata, con poco tempo a disposizione e difficoltà a focalizzare l’attenzione su temi letterari che possano far riflettere e discutere. Avrei forse optato per una pausa di silenzio (che può anche fare bene), se non mi fossi imbattuto in un articolo di Repubblica che mi ha fatto sobbalzare, costringendomi, letteralmente, a una breve esternazione in tema.
L’articolo in questione racconta, persino con troppa ironia rispetto alla moderata indignazione, come il dipartimento all’Istruzione dello stato di New York (e già qui mi fa specie, perché non si parla di Alabama o qualche altro angolo di antiche tradizioni censorie) abbia vivamente sconsigliato l’uso nei testi scolastici di una nutrita serie di vocaboli. Come potete leggere, ce n’è davvero per tutti i gusti: col denominatore comune di essere tutti vocaboli di uso abituale, non facilmente traducibili e fondamentalmente necessari in determinati contesti. In nome del “politicamente corretto”, evidentemente ancora di moda (almeno a parole), vengono così messi all’indice non solo termini che potrebbero risultare “offensivi” perché estranei o contrari alle convinzioni di alcuni gruppi sociali, ma persino termini che potrebbero suonare “dolorosi” nel loro riaprire antiche ferite o nel ricordare torti subiti da singoli o gruppi.
Nell’insieme, il rigoroso rispetto delle indicazioni dettate renderebbe impossibile articolare, in un testo apposito, un discorso formativo e educativo come dovrebbe essere nei compiti della scuola. Parlo (anche) per esperienza diretta: ho scritto qualche anno fa un libro per studenti delle scuole medie sulle grandi tematiche del mondo contemporaneo, sui diritti e sull’educazione alla cittadinanza e alla convivenza, attingendo a piene mani in quel vocabolario che lo stato di New York considera “sconsigliabile”; e credo proprio che uniformandomi a queste bizzarre regole non sarei riuscito a scrivere nulla di comprensibile.
Devo dire, mettendo in campo anche qualche mio pregiudizio, che gli americani (intesi come establishment) ci hanno abituato da tempo a una visione falsamente edulcorata della realtà, che attraverso il rispetto di alcune forme porta di fatto all’elaborazione di una visione complessiva del mondo del tutto distorta e strumentale. E credo che anche in questo caso il “politicamente corretto” sia una risibile scusa: meglio dire che è inopportuno parlare di povertà piuttosto che prendere atto dell’esistenza di questa “sconcezza” provando a raccontare, spiegare, riflettere, confrontarsi.
Probabilmente il discorso porterebbe lontano, pur restando nei paraggi di quella comprensione del reale che sta nella nostra ragion d’essere editori. Ma quel che mi fa più impressione, istintivamente, è la proibizione in sé. Chi di letteratura si occupa ha sempre avuto in odio il ricordo dei roghi di libri, manifestazione di intolleranza e di limitazione alla libertà di pensiero e di espressione. Qui siamo arrivati ai roghi di parole: che, sinceramente, non mi sembra né meno né meglio.