da Postpopuli.it
I libri di Amos Edizioni, piccola casa editrice di grande qualità, si contraddistinguono non solo per la bellezza materiale dei volumi, ma per i contenuti d’eccellenza. La raccolta delle Poesie complete di un grande autore spagnolo, Julio Llamazares, a cura e per la traduzione di Sebastiano Gatto (con testi a fronte in castigliano), offre un insight(non a caso uso il termine inglese, perché non c’è un equivalente italiano altrettanto pregnante: forse dovrei dire uno “sguardo penetrante”, ma non renderebbe l’idea) in un intero mondo, non solo nello stile e nella visione del mondo del poeta.
A tutto questo siamo egregiamente introdotti dall’intervista all’autore da parte dello stesso curatore, oltre che dalla postfazione di Llamazares. Che non è solo un autore di versi, va detto. Nella sua produzione lirica, tanto rada quanto essenziale e quasi ermetica, esprime un ricco pentagramma e un intero campionario di sfumature emotive, fatto non soltanto di toni e semitoni, o di colori primari e secondari, ma di microtoni, di sfumature intermedie che danno il senso della profondità e della complessità di un’intera esistenza. Un tema ricorre come in una follia, nelle poesie di Llamazares. E mi è personalmente vicino, per un motivo che dirò alla fine. Si tratta del suo paese, Vegamián, scomparso sotto un lago artificiale, ma rimasto permanentemente nella sua memoria come un bacino di memorie e di potenzialità inespresse. Tutte le poesie di questo autore sono venate da un senso di “spora sommersa”, in cui suoni e le percezioni sembrano dilatarsi all’infinito, seguendo percorsi ritmico-melodici che attingono alle profondità del suo essere. Penso alle prime righe della prima poesia della raccolta, da La lentezza dei buoi (pag. 23): “La nostra quiete è dolce e blu e torturata a quest’ora. Tutto è lento come il passaggio di un bue sulla neve. Tenero tutto come le bacche rosse dell’agrifoglio. Il nostro abbandono è grande come l’esistenza, profondo come il sapore dei frutti guasti. Il nostro abbandono non termina con la stanchezza. (…)” Oppure ancora a questo frammento (pag. 35): “Nessuno conosce la paura meglio di noi. Siamo venuti dal luogo in cui germinano gli estesi pascoli del niente. Camminiamo alla cieca tra erbacce di vinco e almanacchi perché siamo bracconieri nei boschi del tempo. (…)” Non saprei dire se i versi di Llamazares siano più nostalgici o disincantati. Forse sono una miscela dei due stati d’animo, forse qualcosa di completamente diverso. Vi è, in essi, un senso di profonda musicalità, quasi che questa melodia intima fosse una ragion d’essere bastante a se stessa, senza bisogno di ulteriori qualifiche. Come il suono che sottende a questi versi tratti da una poesia di Memoria della neve (pag. 113): “Nera pioggia attraversa la notte. Pesantemente avanzano i carri per i campi. Così è la negazione della mia memoria: come una pioggia nera. Come una frana di rocce spazzate dall’acqua.” Dunque alla radice di tutto c’è la natura. Una natura che non è né passata né futura, ma ovviamente compresente a tutto, in un tempo-non tempo, che forse è l’eterno, forse la sua negazione. Tanto che, in una sorta di paradossale affresco garcialorchiano, offre scenari che non ci si aspetterebbe, visioni “fuori stagione” tinte di colori che toccano dentro, lavorando sull’anima di chi legge, in una genuina espressione di “poesia archetipica”. Come in Paesaggio di gennaio (Castiglia) (pag. 173): “È gennaio e c’è sole in questo pomeriggio freddo e giallo. È gennaio e c’è sole. E stanno tutti i vecchi come pennellate nere, attaccati alle pareti. La loro resa è amara come la loro solitudine. La loro solitudine arriva dove arriva il tempo. Ma cosa aspettiamo, dunque, la misericordia? Tutto è in ordine: la buia muraglia, gli ultimi sigari tremolanti e i corpi immobili, come pennellate nere contro l’eternità.” Forse è per tutta questa serie di ragioni che mi sento vicino alle onde emotive evocate da questo autore. Anche perché mi è sempre rimasta impressa la storia del vecchio villaggio di Alleghe, sulle Dolomiti, dove da bambino andavo in vacanza, e che finì sotto una grande frana del Monte Spitz, e poi fu sommerso dal lago. A volte i ricordi personali incidono sulla qualità di una lettura. Ma io sono propenso a credere che un libro non lo si incontri mai per caso.